Si dice che in Argentina la gente applauda Messi ma canta per Tevez e ciò che si dice in Argentina è quasi sempre vero perché lì giù quando qualcosa viene detto è perché, quasi sempre, lo si sente.
A dir la verità non ci vuole molto a sentire il pubblico della Bombonera quando intona canti per il Boca o per gli eroi Xeneizes, soprattutto per Carlitos Tevez che nel barrio della Boca non è un semplice jugador tantomeno un semplice hombre.
La travagliata storia di Carlos Tevez, inizia a soli tre mesi dalla sua nascita quando la madre decide di abbandonarlo e quando, pochi mesi dopo dell’acqua bollente cadutagli addosso gli segnerà il volto per tutta la vita. Ferita che mai si rimarginerà e che gli resterà per sempre scalfita addosso come promemoria al mondo di quanto, nonostante tutto, quel diez sia un combattente, vincente più forte persino del suo destino.
Un padre biologico che non lo volle mai riconoscere, un abbandono da parte della madre a soli tre mesi, l’incidente domestico che gli sfregiò il volto, l’adozione da parte degli zii e poi, a carriera già sbocciata (ai tempi della Juve) il rapimento dello zio…
Ed è proprio questo a renderlo speciale, probabilmente unico, a fare di lui el jugador y l’hombre del pueblo: la rivalsa e il riscatto da quello che era il più diffuso e amaro destino di buona parte dei ragazzini argentini, cresciuti in mezzo a violencia y crimen, delincuencia y arma da fuego anche e soprattutto in mezzo ai potrero dove tra i sassolini e il fango nasce l’amore misto a rabbia che in Carlitos, come in altri sudamericani, hanno funto da forza motore per quello che era il suo più grande sogno: scrivere la storia con i piedi, la cosa che più cara in suo possesso.
Il suo sguardo assente e quasi deluso che nella partita di domenica, l’Apache non si preoccupò di celare dopo l’inspiegabile e immenso gol su punizione di Zarate che lo aveva sostituito dopo una prestazione deludente, racconta poco di quel Carlitos che si è preso il mondo facendolo suo.
Raccontare la vita di quello strano e brutto giocatore dal volto cattivo non è semplice, specie perché di facile Carlitos ha avuto sempre ben poco, eppure quel poco gli è bastato per rendere tutto estremamente più facile, quasi naturale.
Se di Tevez si parla, l’aggressività agonistica non può che essere la prima inevitabile cosa che ci passa davanti, un’immagine quasi inconscia che se lo chiedessimo in giro ci accorgeremmo quanto sia un’immagine che accomuna tutti, collettiva più che individuale. D’altronde non può che essere così: non a caso l’appellativo ‘Apache’ (che non dipende solo dalle sue origini di Fuerte Apache – oseremmo dire), Carlos Alberto Martínez Tévez è l’incarnazione della garra y fuerza argentine per antonomasia.
Impossibile tirarlo giù e soprattutto abbatterlo, troppo veloce, troppo possente, troppo duttile e combattivo. Fisico, velocità, spirito di squadra ma anche intelligenza, visione di gioco, ricezione di palla tra le linee e soprattutto tanta e perenne voglia di vincere hanno forgiato le linee di quel giocatore duro come i tratti somatici del suo volto, facendo di lui un misto tra perfezione tattica e forza disarmante.
Quel gol al Borussia Dortmund, tanto caro e impresso ai tifosi bianconeri, segnato da fermo con precisione e forza che fece impazzire i supporters zebrati e ancora oggi ricordato con rammarico perché ‘se solo non fosse andato via‘, ‘se solo non avesse scelto il Boca…’, è solo una goccia dello straripante Tevez che tuttora, malgrado il tempo che scorre, stupisce quantomeno nelle scelte (di cuore).
Gracias Boca
Sì perché il Boca per Carlos, prima di tutto, è stato una scelta di vita, una consapevole dedizione di se stesso in un tempo in cui si fa fatica credere che un Club possa ancora essere una questione di sviscerata fede e ineluttabile sentimento.
Spiegare il legame tra Carlos e il Boca è pressoché impossibile e semplice al contempo: impossibile con la retorica, semplice se solo ci si affidasse al credo e ai dogma che il calcio argentino trasmette a gente come lui che nello scegliere di tornare a casa porta a compimento quell’atto di assoluta e totale devozione a quello che è sempre stato il più grande e unico degli amori.
Il Boca a Carlos salvò la vita e gliela diede insieme quando a dodici anni, nel 1996, passò a far parte di quella mitad mas uno, indossando quella maglia gialloblù che divenne a tutti gli effetti la sua pelle. Non una seconda pelle, ma l’unica.
Con il Boca Juniors, prima nell’Under-20, poi in prima squadra e in Primera División, comincia a presentarsi al mundo del fútbol vincendo il campionato argentino di Apertura, la Coppa Libertadores, la Coppa Intercontinentale, la Copa Sudamericana e il Balòn de Oro. Sempre con gli Xeneizes partecipa alle Olimpiadi di Atene, alle quali l’Argentina si aggiudica la medaglia d’oro grazie all’Apache diventato protagonista assoluto al punto da vincere il titolo di capocannoniere del torneo.
Il sogno di diventare un gran calciatore e ai massimi livelli internazionali, lo costringono a prendere la più amara e sofferta delle scelte e il 17 dicembre 2004, dopo aver vinto e alzato al cielo la Coppa Sudamericana contro il Bolivar, segnando peraltro una rete nel finale, tra le ovazioni del pubblico e dei compagni, con il fiato spezzato e le lacrime a singhiozzo saluta il Boca prima di trasferirsi al Corinthians, snodo di slancio verso il calcio europeo.
Dal fútbol al football
E così fu, dopo un solo anno in Brasile dove conquistò il cuore persino della popolazione verdeoro, acerrimi rivali degli argentini, volò in Europa alla volta del West Ham prima di passare al Manchester United. Con i Red Devils conquista due Premier e una Champions League (2008) di cui, però, non si sentirà mai vincitore.
Era la Champions di Rooney e Ronaldo
Da una parte all’altra di Manchester e dopo lo United, passò al City dove iniziò a guadagnarsi un certo astio da parte degli inglesi, in particolar modo dei vecchi tifosi quando durante il derby segna ed esulta in gran stile senza alcun rincrescimento, provocando l’ira di Gary Neville con il quale sfocia la lite dopo che il diavolo rosso alza il dito medio per la rabbia che la mancanza di rispetto dell’esultanza dell’argentino gli provoca.
Al City divenne pupillo di Roberto Mancini che gli affida la fascia da capitano ma il carattere irruente e talvolta arrogante e ingestibile lo portano ad uno screzio con il tecnico italiano dopo essersi rifiutato di entrare in campo negli ultimi minuti della partita contro il Bayern Monaco. L’allenatore, con il quale aveva già avuto qualche frizione, interrompe ogni qual tipo di feeling e addirittura di rapporto con l’argentino, decisione che culminerà con la decisione di relegarlo in panchina per sei lunghissimi mesi.
Juve, storia di una risurrezione
Nel luglio 2013 passa alla Juventus di Antonio Conte tra la diffidenza del popolo bianconero che, considerato il carattere temerario, teme possa portare scompiglio nello spogliatoio ma soprattutto che il suo tempo sia ormai finito ma Carlos zittisce tutti già da subito, andando in gol contro la Lazio nella partita di Supercoppa Italiana e concludendo la stagione con 19 reti.
Nel 2015 si contese fino alla fine il titolo di capocannoniere con Luca Toni e Mauro Icardi che sul concludere vinsero di due gol rispetto all’argentino fermatosi a 20 reti. Ma la vera delusione arrivò quel terribile 6 giugno sotto il cielo di Berlino quando vide sfumare il sogno Champions da protagonista, strappato ancora una volta dal Barcellona (dopo la finale di Roma del 2009).
Il rapporto mai davvero decollato con Massimiliano Allegri ‘Cagon‘ (com’era solito definirlo) e la sviscerata e mai assopita e celata voglia di tornare a casa lo portano ad un divorzio con la Vecchia Signora che, come dichiarò in una vecchia intervista, ebbe il merito di ridargli vita dopo il triste epilogo al Manchester City che lo aveva indotto alla decisione di abbandonare il fútbol.
Volevo abbandonare il calcio,
poi arrivò la Juventus…
El amor de una vida
Una volta arrivato al Boca però, si aprì la parentesi cinese che lo aveva cosparso di denaro ma una volta arrivato a levante, salvo il buon esordio, la sua avventura non fu appagante come l’aveva immaginata e i 38 milioni d’ingaggio non bastarono, specie perché l’uomo che non si arrende mai non poteva rassegnarsi ad un congedo così sterile fatto di prestazioni e voglia lontani dal suo modo d’essere e l’amor e l’entrega che per quella maglia che lo aveva da sempre condizionato e in qualche modo ossessionato lo ri-portarono a casa.
E’ gennaio dello scorso anno quando torna al Boca e il destino per lui riserva la più immensa e forse l’ultima emozione della vita: la Finale di Copa Libertadores contro i più grandi dei rivali, i Millonarios.
Sfortunatamente per lui e per gli Xeneizes ad avere la meglio è il River in quella strana e incredibile partita che, dopo la disdicevole vicenda degli scontri nelle ore precedenti al secondo atto di quella che è stata la finale più unica e attesa di tutti i tempi, si giocò fuori dall’America, al Bernabeu dove, solo qualche anno prima Carlitos aveva conquistato la finale di UCL contro i blancos grazie al gol di Morata che valse il pareggio e il ticket per Berlino.
“É una ferita ancora aperta.
Un dolore che non mi passa”.
Ma non solo la finale persa, il suo travagliato rapporto con l’allenatore Schelotto lo costrinse alla panchina fino al 111′, privandolo in qualche modo del più grande dei desideri, quello di giocare da protagonista la più sognata delle partite a lui che era ed è il più fedele e affidato alla bandiera gialloblù.
Dopo la finale persa a Madrid, aveva dichiarato con la solita garra di sempre di non poter mollare per il bene della squadra e dei tifosi, ‘defraudati’ dal più grande sogno di vincere quella Coppa contro i grandi rivali.
No, non mi ritiro.
Non posso ritirarmi in questo modo, perché il tifoso del Boca è così, è pronto a tutto per la propria squadra ma in questo momento sta soffrendo e noi dobbiamo provare a vincere la Libertadores l’anno prossimo.
Nella mia carriera ho vinto tanto ma ho anche perso tante volte, farlo senza poter scendere in campo a lottare coi compagni è stato terribile, mi sentivo impotente.
Noi idoli dobbiamo lasciare da parte le dispute personali e quindi spero che Riquelme possa unirsi a noi e lavorare per il Boca, insieme siamo più forti.
La gente ci ha mostrato tanto affetto dopo la sconfitta e io penso di avere ancora qualcosa da dare nel mondo del calcio e voglio darlo al Boca Juniors”.
Qualche giorno fa l’Apache ad un intervista al Tyc Sports ha annunciato il possibile ritiro a fine anno: “Questo potrebbe essere il mio ultimo anno. Non intendo andare da nessuna parte: voglio chiudere qui”.
Ma prima, Carlos deve compiere l’ultima delle sue misiones: aiutare a spingere il Boca con tutta la forza in corpo verso titolo sfuggito sul più bello per concludere quello che era il suo più grande intento, riportare il Boca a sollevare IL titolo, insieme.
Intanto l’inarrestabile Apache compie oggi 35 anni e tra alti e bassi, tonfi clamorosi e vittorie indelebili, ha (quasi) realizzato tutto ciò che avrebbe voluto, compiendo la sua più grande missione: scrivere la storia del calcio e onorare con tutto se stesso quello che per lui è ed è sempre stata la sua reale alma: il Boca Juniors.
Egle Patanè