Supercoppa italiana: gli interessi dietro ad un pallone

Continuano le polemiche legate alla Supercoppa italiana che si disputerà in Arabia Saudita con il divieto per le donne di accedere a tutti i settori dello stadio di Gedda; quando il calcio deve fare i conti con le esigenze economiche e politiche

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(Immagine tratta da Vanity Fair)

Continuano il dibattito e le polemiche legati alla scelta di disputare la Supercoppa italiana del 16 gennaio tra Juventus e Milan a Gedda, al King Abdullah Sports City Stadium,  uno stadio dove le donne potranno accedere, secondo le rigide disposizioni legislative dello stato dell’Arabia Saudita, solo nel settore “famiglia” e accompagnate dagli uomini.

Negli ultimi giorni il presidente del Coni Giovanni Malagò in un’intervista rilasciata a Radio Anche’io Sport ha dichiarato che il caso

“è il trionfo dell’ipocrisia considerato che è dal mese di luglio del 2018 che si sapeva che l’offerta avanzata alla Lega di Serie A da parte dell’Arabia Saudita era quella migliore”.

Malagò ha sottolineato come in realtà sino a poco tempo fa le donne allo stadio non erano ammesse in nessun settore, conseguentemente si tratterebbe di un piccolo spiraglio in senso positivo, un piccolo passo avanti verso l’integrazione femminile.

Il presidente del Coni si è premurato di considerare come il nostro Paese intrattenga con l’Arabia Saudita  molteplici accordi commerciali senza che nessuno lo ritenga scandaloso e ha concluso rimarcando come i prossimi Mondiali di calcio, ai quali tutti si augurano possa partecipare anche la nostra Nazionale, si terranno in Qatar, un paese con leggi restrittive almeno quanto quelle dell’Arabia Saudita.

La Lega Calcio ha rimarcato in questi giorni il suo impegno nell’ottica di lavorare per far si che nelle prossime edizioni del torneo che si disputeranno in Arabia le donne possano accedere senza restrizioni alcune in tutti i settori dello stadio. 

La prima competizione internazionale alla quale assisteranno il 16 gennaio dovrebbe essere così una sorta di rompighiaccio per porre un freno alla politica di segregazione dei sessi o almeno si cerca di giustificare in questo modo una scelta dettata da interessi economici che sarebbe utopistico pensare di aggirare.

In Arabia le donne possono assistere ad una partita dal vivo dall’ottobre del 2017, data in cui l’Autorità generale per lo Sport ha autorizzato l’ ingresso al pubblico femminile.

E’ curioso il fatto che ad evidenziare l’annosa situazione di vita di tante donne senza (o quasi) diritti sia stato un evento sportivo;  eppure la cronaca da tempo riporta la radicalità della legge che vige in Arabia Saudita, nonostante le previsioni incoraggianti della salita al potere del principe Mohammed bin Salman che di fatto sono state smentite.

Leggendo un rapporto del World Economic Forum che misura l’indice delle pari opportunità realizzato lo scorso anno l’Arabia è fanalino di coda, ovviamente.

Mi viene da pensare che in effetti la partecipazione ad una partita sia un altro fanalino di coda in confronto ai problemi e alle restrizioni ben più significative che andrebbero denunciate con forza; in Arabia Saudita, è bene ricordarlo, le donne per viaggiare devono avere un permesso di un uomo di famiglia; si possono sposare solo con il benestare di un uomo; se protestano vengono incarcerate.

La speranza è quella che la visibilità del calcio possa davvero dare visibilità a donne che vivono in un Paese che le considera degli oggetti e che ha per capitale Riad che, amara ironia della convenienza monetaria e politica, è stata scelta a suo tempo come sede per il Comitato dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite.

Senza dimenticare che la strada è lunga e tortuosa persino nella nostra Nazione: come non ricordare il noto volantino diffuso allo stadio Olimpico di Roma dal direttivo Diabolik Pluto della Lazio che vociferava che la Nord è un luogo sacro con le prime file nelle quali le donne non sono gradite…

Silvia Sanmory