La Lazio continua a far sognare i tifosi, battendo l’Inter ed insinuandosi prepotentemente nella corsa scudetto, costringendo Sarri e Conte e guardarsi le spalle dalla vera outsider del campionato. O almeno, questa è la definizione che gli addetti ai lavori hanno dato alla squadra di Simone Inzaghi, quasi come il piazzamento attuale in classifica (2° posto ad un punto dalla Juventus) fosse frutto della fortuna.
Parlare di fortuna quando si parla di Lazio è un ossimoro, considerate le precedenti stagioni e, più in generale, la storia del club capitolino.
Fortunatamente, nell’indifferenza generale (spinta spesso dalla poca importanza che viene data a squadre meno blasonate), c’è anche qualcuno che, finalmente, elogia le doti di Simone Inzaghi giunto al quarto anno sulla panchina dei biancocelesti.
Indispensabile, per completezza di informazione, fare un passo indietro per raccontare la storia di Simone e della sua Lazio; forse una delle più romantiche del panorama calcistico nazionale attuale.
La sua avventura inizia da giocatore, nel 1999, nella Lazio di Sven Goran Eriksson (sì, la Lazio più vincente della storia) dove conquista una Supercoppa Europea, tre Coppe Italia, uno Scudetto ed una Supercoppa italiana entrando di diritto nella rosa dei protagonisti di quella squadra.
Nonostante il ritiro dal calcio giocato, nel 2010, Simone non riesce a staccarsi dai colori biancocelesti e resta legato all’ambiente.
La società gli offre l’opportunità di iniziare la carriera da allenatore partendo dagli Allievi Regionali (che porta alla conquista della Coppa).
Prosegue con gli Allievi Nazionali, fino ad arrivare fisiologicamente alla Primavera. È proprio alla guida degli “aquilotti” che Simone fa bella mostra delle sue doti da leader: i “suoi” ragazzi portano a casa due Coppe Italia ed una Supercoppa Italiana riuscendo a riavvicinare timidamente i tifosi al settore giovanile.
La svolta arriva nel 2016: la Prima squadra naviga in acque particolarmente ostiche, perde rovinosamente il derby e Stefano Pioli viene esonerato.
La stagione ormai è compromessa e sarebbe inutile pensare di ingaggiare un allenatore che funga da traghettatore per le ultime gare rimaste. Lotito pesca in casa e promuove Simone alla guida della panchina che, fino a pochi anni prima, lo vedeva seduto in attesa di entrare in campo.
L’esordio è contro il Palermo; doppietta di Miro Klose ed il gol di Felipe Anderson mostrano da subito una ritrovata armonia; il brasiliano, subito dopo il gol, corre ad abbracciare Simone ed in quel gesto c’era tutta la Lazialità che, ormai da vent’anni, caratterizza il Mister biancoceleste.
Al termine della stagione, sembra essere terminata anche la sua avventura in Serie A: “Non è ancora pronto – dicevano – che vada a farsi le ossa a Salerno un paio d’anni…poi se ne riparlerà”.
L’umiltà che lo contraddistingue lo porta ad accettare la decisione e a firmare il contratto con la Salernitana per lasciare il posto a Marcelo Bielsa, tecnico di ben altra caratura (dicevano, sempre…).
Esiste un fil rouge che non si può spezzare, tra Simone e la Lazio e, a pochi giorni dall’inizio del ritiro estivo, salta l’accordo con Bielsa e Simone torna a sedersi sulla sua panchina, non prima di aver fatto una clamorosa inversione sull’A1, a pochi chilometri dalla barriera di Salerno.
La decisione della conferma sulla panchina, fa storcere il naso a molti tifosi (e ai soliti addetti ai lavori) che lo interpretano come l’ennesimo ‘ripiego’ di Lotito. Il grande allenatore che doveva finalmente arrivare a cambiare ruolino di marcia alla squadra, non sarebbe arrivato ed erano già rassegnati all’ennesima stagione da metà classifica.
La lungimiranza non appartiene a tutti, d’altra parte, ed io per prima ho avuto non poche perplessità sulla sua permanenenza.
Per fortuna, però, Simone non è il tipo che si lascia condizionare dalle chiacchiere e dagli umori della piazza romana (che conosce bene, ormai) ed inizia, a testa bassa, a costruire la sua Lazio. Lo fa insegnando ai ragazzi quello che lui per primo ha imparato, da giocatore prima e da allenatore in seguito, negli anni della sua personale scalata.
I risultati non tardano ad arrivare e sono tangibili ed oggettivi: la Lazio gioca un calcio spettacolo senza eguali. È un rullo compressore, macina gol e bel gioco in un crescendo di prestazioni che, purtroppo, perdono di continuità nel finale della stagione, facendo sfumare di un soffio la qualificazione in Champions League.
Da rimpiazzo a bandiera, però, il passo è breve: anche il più scettico dei tifosi (alzo timidamente la mano, di nuovo) lo erge a bandiera e vede in lui quel dodicesimo uomo in campo che mancava da troppo tempo alla Lazio.
Ci si commuove guardandolo agitarsi in panchina, rincorrere le azioni da bordo campo e calciare idealmente il pallone per tentare di buttarlo in porta.
Lo spettacolo vero è quando quel pallone entra: corre, urla, piange, cade (non si può dimenticare la rovinosa scivolata sul ghiaccio in Europa League in quel Dinamo Kiev-Lazio) proprio come farebbe ciascuno di noi al suo posto.
Il legame con il suo popolo va rinforzandosi di anno in anno e non potrebbe essere altrimenti.
L’unica vera battuta di arresto si è verificata nella scorsa stagione: la Lazio arriva ottava in classifica, pur riuscendo ad accedere all’Europa League battendo l’Atalanta in finale di Coppa Italia.
È proprio da quella finale che Simone (dopo essere stato più volte messo sulla graticola nelle settimane precedenti) entra in un lungo silenzio stampa che ha tutte le caratteristiche del più drammatico degli addii.
Per oltre un mese, rimbalzano notizie che lo vogliono sulla panchina di Juventus, Milan e, non ultima, l’Atalanta; da Formello le poche notizie che trapelavano, raccontavano di scrontri e liti tra Lotito ed Inzaghi (con annesse urla avvertite dall’esterno del centro sportivo).
Ai tifosi non resta che aspettare e sperare che sia il solito tam tam di fantamercato estivo, sperando che il cuore biancoceleste di Simone possa superare anche questo ostacolo e che continui a guidare i suoi ragazzi almeno per un’altra stagione.
Il cuore vince, ancora una volta, e Simone firma il rinnovo, strappando la promessa di una campagna acquisti all’altezza dell’obiettivo quarto posto, ormai diventato un mantra imprescindibile tra le mura di Formello.
Nonostante l’armonia che si respira già dal ritiro estivo, la stagione non parte con il piede giusto ed è di nuovo in agguato la caccia alle streghe: in molti (troppi) chiedono la testa di Simone e lo spettro di Gattuso è dietro l’angolo.
Si parla di esonero dalla vigilia della gara contro l’Atalanta. A fine primo tempo la Lazio è sotto di tre reti e tutto sembra presagire il peggio per l’allenatore. Ancora una volta, però, non si perde d’animo; nell’intervallo scuote i suoi ragazzi (forse li percuote anche) e nel secondo tempo entra in campo un’altra Lazio: la sua Lazio.
Quella rimonta dà il via ad una serie incredibile di risultati utili consecutivi.
La squadra torna a mostrare il calcio spettacolo al quale ci aveva abituato, Ciro Immobile sembra non volersi più fermare e punta dritto sì al titolo di capocannoniere ma con un occhio sempre vigile alla scarpa d’oro.
Non è questo, però, il momento di parlare dei singoli.
Nella Lazio, i singoli non esistono: c’è il gruppo, la famiglia. La grande forza di Simone Inzaghi è tutta lì. È uno di noi. Lo è nel modo in cui parla dei suoi ragazzi, come se fosse un loro compagno di squadra. Non si erge sul pulpito come, come spesso fanno molti suoi colleghi, ed è per questo che il gruppo lo segue. Un atteggiamento, il suo, che lo rende vulnerabile ed invincibile allo stesso tempo.
I più romantici, lo paragonano a Tommaso Maestrelli. Proprio come la Lazio del ’74, Inzaghi non può contare su una rosa lunghissima, ma riesce a reinventare la squadra in corsa, dando immenso valore anche a chi subentra o a chi ha meno possibilità di ottenere la maglia da titolare.
Nei quattro anni di panchina, Simone ha saputo plasmare la sua squadra cercando (e trovando) i punti di forza dei singoli giocatori, mettendoli in condizione di esprimere le loro qualità, come dovrebbe fare un vero leader.
Si è scrollato di dosso il paragone con suo fratello Filippo (da sempre più osannato di lui) ed ha riportato la Lazio a competere per traguardi che non erano, apparentemente, alla portata. Forse non lo sono neppure quest’anno, ma crederci non costa nulla.
Gli addetti ai lavori ora lo sanno e sono costretti a parlarne: la Lazio c’è, è lì e non per fortuna o demerito degli avversari ma per meriti, enormi, del lavoro di Simone Inzaghi e di tutto il suo staff. Dal vice al preparatore atletico, passando per il match analyst. Nulla è lasciato al caso nella gestione della squadra ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Non è dato sapere come finirà la stagione; parlare di scudetto è forse troppo.
Un po’ per scaramanzia, un po’ per oggettiva inferiorità in termini di rosa, ed ancora per scaramanzia.
Quello che è certo è che Simone Inzaghi è entrato di diritto nella storia biancoceleste: prima da giocatore e poi da allenatore!
Sfatando tutti i tabù che gli si sono posti davanti, l’ultimo proprio battendo l’Inter in casa, e superando i suoi stessi record.
Una cavalcata bellissima, la SUA, spinta da un amore che traspare dai suoi occhi e dal quale è impossibile non restare affascinati.
Micaela Monterosso