La settimana nera dell’AS Roma si chiude nel peggiore dei modi possibili, grondando amarezza.
L’influenza del doloroso addio del suo Capitano – perno e bandiera dello spogliatoio giallorosso – arriva fino a Reggio Emilia, dove la squadra di Ranieri non riesce a trovare l’appiglio per credere nella qualificazione, lasciandosi trasportare dall’acqua gelida che cade impietosa per tutti i 90′.
Un match surreale, ovattato, dove lo sguardo di Ranieri, in piedi a bordo campo sotto la pioggia, ha detto tutto quello che c’era da dire. Lui, arrivato a Roma con l’entusiasmo di un leone, lui che ha caricato la squadra, ha motivato i giocatori restituendo fiducia e consapevolezza, lui che ha chiamato in causa persino i tifosi facendoli partecipi del suo progetto – sicuro di un successo spezzato sul filo di lana dalla società stessa – ha subito un autogol inaspettato, violento e inspiegabile.
Al Mapei Stadium la Roma arriva con un 4-2-3-1, le precedenti performance giallorosse conducono ad una soluzione più leggera a centrocampo con i ritrovati Fazio e Jesus a contenere una difesa piuttosto definita. A sorpresa Ranieri lascia fuori De Rossi, preferendogli Nzonzi e Cristante, dove il francese pare più consistente se messo sotto pressione.
In avanti Dzeko con alle spalle Zaniolo trequartista, Under ed El Shaarawy sulle fasce per accentrare la manova decisiva.
De Zerbi punta invece sulla velocità di Djuricic e Berardi, rinucia a Babacar e schiera un 4-3-1-2 dinamico con Demiral che mette spesso in difficoltà Jesus, mentre Locatelli, Magnanelli e Duncan creano una barriera spinosa agli attaccanti avversari.
Il Sassuolo mette anima, la Roma si mostra nervosa e svogliata, si riprende nel finale forse in preda ad un moto d’orgoglio personale, ma alla fine per cosa?
L’andamento societario fa intravedere scenari di rivoluzione in ogni reparto, l’insicurezza sul futuro non regala quella spinta che ti convince a dare tutto, nemmeno il sentimento viene riconosciuto come un simbolo di appartenenza e quando mancano le motivazioni è lo smarrimento a farla da padrone.
In questo periodo storico anche il calcio, simbolo di attaccamento e passione, sembra stia attraversando una fase di mutamento che poco ha a che fare con i principi umani.
Il mero consumismo sta letteralmente surclassando il valore di aggregazione che contraddistingue lo sport ed il calcio nello specifico riducendo ogni cosa ad un numero, una cifra, un profitto. Così ogni forma di sentimento viene repressa e soffocata quasi fosse una vergogna e non un moto d’orgoglio da sbandierare, la maglia, i colori, il cuore che batte, stanno lasciando il posto ad automatismi e catene di montaggio dove nessuno riesce più a riconoscersi.
Non esistono più quei campionati conquistati con sudore e fatica, ma con il sorriso sulle labbra, ora ogni punto viene valutato sul calcolo delle performance di ogni singolo interprete.
Non esiste libertà: è triste, forse eccessivo ma a mente fredda è l’unica spiegazione plausibile.
Non è stato un Sassuolo-Roma alla penultima di campionato: ma l’autocelebrazione dell’ibrido – almeno in veste giallorossa – dove ogni giocatore ha avuto paura di dire la sua, dove da contratto si dichiara di volere una cosa, quando è tutt’altro quello che si vorrebbe confessare.
Laura Tarani