Insulti all’allenatore e all’arbitro, risse sugli spalti, bambini apostrofati malamente in campo ed incitati ad aggredire i compagni: ritratto dei genitori Ultras tra pressioni, aspettative e diseducazione
Un tempo erano gli oratori a fare da cornice ai primi tiri al pallone dopo la lezione di catechismo e tutt’al più era il Don ad assistere alle prime prodezze tra le porte di campetti improvvisati.
Ora le scuole calcio hanno sostituito quasi del tutto questa forma di preludio agonistico e i palazzetti dello Sport si animano di bambini in divisa ufficiale della squadra di appartenenza che si esercitano sognando il passaggio da “Pulcino” a futuro fuoriclasse.
Loro sognano, come è giusto che sia.
I genitori, spesso, invece inseguono con tutto ciò che ne consegue in fatto di aspettative, pressioni e di più o meno lecito.
La selezione, si sa, nel mondo del calcio è spietata; i dati parlano chiaro: di questi Pulcini, uno su 5000 riuscirà ad arrivare ad un contratto non necessariamente in Serie A.
La cronaca degli ultimi tempi pullula di insulti agli arbitri, risse sugli spalti e minacce agli allenatori: e gli Ultrà, in questo caso, mi si passi il termine, sono loro, i genitori.
Qualcuno ha detto che quando un genitore iscrive il proprio bambino in una scuola calcio in un certo senso è come se iscrivesse se stesso; domina lo spirito di rivalsa e la convinzione che un calciatore non è solo uno sportivo ma anche un vero fenomeno, emblema dell’affermazione sociale.
E il campo da calcio, di conseguenza, diventa un palcoscenico.
Non è certo raro assistere a sceneggiate tra genitori che si accusano reciprocamente di ipotetici sgarri subiti dai propri figli, o si lanciano contro l’allenatore colpevole di tenere troppo in panchina il bambino o contro l’arbitro che ha sfavorito il proprio pargoletto in scarpette con il tacco.
Ma il peggio, se possibile, lo si raggiunge quando dagli spalti i toni si alzano per apostrofare malamente un bambino di sei/sette anni per un fallo nei confronti del figlio, spesso incitato ad “aggredire” i compagni di squadra per rubargli il pallone.
Così quella che dovrebbe essere una sana attività sportiva incentrata soprattutto a quell’età sul divertimento diventa un massacrante tour de force, una dimostrazione costante di forza, un voler primeggiare a tutti i costi quando ancora in realtà si è alle prime armi persino con i dribbling.
Altro che Dybala, insomma.
Lungimirante, almeno secondo il mio parere, l’idea avuta un paio di anni fa dall’English Football Association che ha introdotto i “Respect Silent Weekend”: durante le partite dei ragazzini ai genitori presenti è vietato discutere e intervenire se non per applaudire e incitare educatamente.
Per sottolineare la necessità di tenere la bocca più chiusa e il cervello più ossigenato sono stati distribuiti persino del lecca lecca ai papà e alle mamme sugli spalti…
Nel nostro Paese qualche tentativo illuminato c’è stato per fare capire ai genitori, ad esempio attraverso seminari e conferenze, che il loro ruolo è quello di educatori e non di procuratori, commissari tecnici, allenatori.
Un esempio il cartello affisso a bordo campo dalla F.C.D. Sporting Pontecorvo.
Il compito genitoriale è quello di incitare senza forzare e soprattutto senza inseguire un talento che a volte non c’è.
Trovo saggio e illuminante a questo proposito il pensiero di Mark Twain: “Siamo sempre più ansiosi di distinguerci per un talento che non possediamo, che essere apprezzati per i quindici talenti che possediamo”.
Da meditare a bordo campo.
Silvia Sanmory