Ho un ricordo ben chiaro di Paulo Dybala e del suo arrivo a Torino nel giugno del 2015.
Un ragazzino esile, con due enormi occhi verdi spalancati sul mondo e sulla sua nuova entusiasmante avventura. Un talento di caratura elevatissima, mostratosi alla prima palla toccata, al primo gol realizzato in quell’oramai lontano 8 agosto in Supercoppa contro la Lazio.
Un lampo, un brivido lungo la mia schiena quasi pari a quello provato la prima volta che ho visto – oramai tanti anni fa – Roberto Baggio.
Lo guardo oggi, addolorata. Non lo riconosco più.
Stanco, sfiduciato, frustrato. Il viso – ancora lo stesso, quello di un bambino – cupo, teso. Un giocatore magnifico, una punta dalle straordinarie capacità realizzative e balistiche, che non sa più cosa sia diventato.
Una profonda – spero non irreversibile – crisi di identità.
Identità che gli è stata strappata con violenza, checché se ne dica. Un pezzo alla volta, con incredibile costanza, con una sorta di premeditazione molto vicina alla cattiveria.
Passatemi l’espressione un po’ forte.
Perché nel calcio – quello vero, che dovrebbe essere una cosa semplice ma a quanto pare non lo è – il talento va preservato e coltivato. Soprattutto quando ti capita tra le mani giovane e incontaminato. E con Dybala è stato fatto tutto, tranne che questo. Il suo talento, in un paragone che mi sono già trovata a riportare, è stato trattato come un pezzo di seta sottoposto a un violentissimo lavaggio a 90°.
Il risultato è, ovviamente, disastroso.
L’argentino, tacciato da molti di carattere debole, è stato al contrario fin troppo forte. Non so quanti calciatori nella sua medesima situazione, consapevoli di avere possibilità sopra la media e costretti a mansioni di manovalanza, avrebbero reagito con una tale flemma senza mai sbraitare, senza mai mettere zizzania nello spogliatoio. Limitandosi a un’uscita dal campo anzitempo: per la quale è stato sollevato un polverone, che nemmeno una tempesta di sabbia nel deserto.
Umiliato persino dalla mancata assegnazione della fascia da Capitano, una fascia che – sottolineo – gli dovrebbe spettare di diritto.
Di diritto!
Negare l’evidenza del ‘caso Dybala’ sarebbe come volere il male della Juventus. Una società che quattro anni fa sembrava decisa a puntare su questo straordinario attaccante (dalla media realizzativa di 23 gol stagionali, da seconda punta) e che deve assumersi le sue responsabilità di fronte alla pessima gestione del calciatore.
Una gestione affidata in toto a un allenatore, Allegri, che lo considera evidentemente inutile all’interno del suo scacchiere. Che lo fa giocare perché in fondo: ‘sì dai, sei bravino ma di te non so bene cosa farmene’.
E non diamo la ‘colpa’ a Ronaldo, per favore.
Cristiano la scorsa stagione non c’era e Alex Del Piero già lanciava l’allarme, sottolineando la necessità da parte di Massimiliano Allegri di fare un passo verso il ‘dieci’.
Tutto ciò ci riporta a riflettere ancora una volta sull’importanza di un tecnico nella vita di un giocatore. Un’importanza che, per quanto voglia essere ridimensionata, emerge puntualmente in molti, moltissimi casi. Perchè quel mister, con cui ti trovi a fare i conti sul rettagolo verde, può essere la tua fortuna o la tua croce.
Agli occhi di tutti oggi appare chiaro che Paulo – un tempo Joya, oggi ben poco – ha bisogno di confrontarsi con altro. Prima che sia troppo tardi, prima che la cicatrice diventi troppo profonda, prima che il suo treno sia passato definitivamente per l’utima volta. E pensate che rabbia se lo avete perso, ma non per vostra responsabilità.
Se lasciare la Juventus per Paulo Dybala significa accantonare la rabbia e ritornare a brillare – come è giusto faccia una ‘joya’, appunto – gli auguro con tutto il cuore di farlo.
Il più presto possibile.
Daniela Russo