Nakata, da calciatore ad ambasciatore del sakè

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Ha smesso di giocare a calcio a 29 anni perché non gli piaceva più quell’ambiente. Così racconta Hidetoshi Nakata, l’ex calciatore giapponese centrocampista centrale che ebbe ottenne successo in Italia soprattutto con le maglie di Perugia, Roma e Parma ed è stato inserito nella FIFA 100, la classifica dei migliori calciatori viventi. Il suo ritiro risale all’anno 2006 e ne parla così in un’intervista al Corriere della Sera : “Sì, me ne sono andato presto, a 29 anni. Non mi piaceva più quell’ambiente. Per me il calcio è solo uno sport da giocare. Nell’agonismo resta puro, onesto. Anche oggi scendo in campo per partite benefiche e ci metto la stessa passione di un tempo. Ma non farei mai l’allenatore, mai il dirigente sportivo. Tranne in casi eccezionali, non guardo le partite in tv. E non chiedetemi per quale squadra tenga. Perché non tifo”.

Prima delle partite leggeva saggi e ha sempre avuto un debole per la moda. Viene definito il Beckham dell’Asia e a Roma lo chiamavo Nakatino. Nel 2001 si giocava la partita decisiva per lo scudetto contro la Juventus e la Roma era in svantaggio di due gol. Pensare che in quel periodo era il simbolo vivente dello sperpero di denaro, visto che era stato pagato 30miliardi di lire per passare la maggio parte del suo tempo in panchina. Ma la sua pazienza è stata premiata e in quell’importante sfida Capello sostituì Totti con lui, e il giapponese segnò il primo gol della rimonta, ma fu anche decisivo per il pareggio segnato da Montella. Ma i suoi colleghi lo ricordano con i libri in mano prima di ogni partita. “E che dovevo fare? Arrivavamo allo stadio un’ora e mezza prima della partita, leggere era un modo utile per passare il tempo. Romanzi? No, quasi sempre saggistica. Volevo essere informato sull’attualità, capire il mondo”, ribadisce Nakata.

Inaspettata la sua uscita di scena, ma per lui la vita è fatta anche di altri piaceri, tipo il design, la moda, i vini e l’arte. “Colpa dell’Italia: qui ho imparato cosa vuol dire vivere dentro la bellezza. Andavo ai musei, non mi perdevo un Salone del Mobile. La moda? Ho avuto sempre un debole per i vestiti. La moda quando è di qualità esprime la cultura di un paese. E che emozione scoprire le cantine. L’ultima mia esplorazione è stata in Franciacorta. Non ho aperto un blog, non sono sui social, uso il computer solo per lavoro. Non possiedo uno smartphone: vado in giro con un vecchio Nokia”.

Non gli interessava avere le copertine, la sua necessità più grande era cercare se stesso: “Quando ho lasciato il calcio mi sono messo in viaggio. Da solo. La condizione ideale per assimilare dagli altri. Ho girato in tutto il mondo, cento nazioni in tre anni. Dopo una carriera di soli hotel e stadi, volevo vedere i luoghi, parlare con le persone. Il lusso dei paesi sviluppati e la frugalità di quelli poveri, bisogna conoscerli entrambi. Certo, il calore di alcuni luoghi dell’Africa nera e dell’Asia mi ha lasciato dentro qualcosa. Ovunque mi riconoscevano non tanto perché fossi famoso io, quanto per la popolarità planetaria del calcio. Ho capito la grandezza di questo sport, la sua forza comunicativa. Mi sono detto: devo usarla per scopi benefici. Così ho creato la Take Action Foundation: interveniamo su progetti specifici lavorando con le onlus locali”.

Il suo cruccio era quello di non conoscere come avrebbe voluto il suo Paese di nascita. Così ha iniziato il suo viaggio in Giappone e ha visitato ben 47 prefetture impiegando molto più tempo di quanto avesse previsto. “Mi chiedevano spesso del mio Paese e io ne sapevo poco. Spesso mi vergognavo di questa mia ignoranza. Nel 2009 decisi di scoprire a fondo il mio Giappone, in questi anni l’ho setacciato in tutte le 47 prefetture. Non il volto iper tecnologico delle città. Volevo conoscere quello della tradizione, del saper fare artigianale. Sì, mi devo impegnare per gli artigiani”.

E oggi eccolo nei panni di ambasciatore del saké. Nakata è a Milano con il suo staff fino al 24 giugno al bar Sakenomy, dove è possibile bere le 30 migliori qualità di questa antica bevanda legata ai templi shintoisti. “Il saké è un po’ il nostro vino ma nella grande distribuzione circolano non più di 5 marche e la maggior parte della gente non ne ricorda neanche una. Eppure nel Paese ci sono 1300 produttori e ognuno fa una trentina di saké diversi. La varietà del riso, la temperatura dell’acqua, il controllo del koji, il fungo utile alla fermentazione che rende il saké alcolico: tutto ne determina la differenza. Capite che ricchezza da valorizzare? Il mio viaggio è stato un immergermi nei tempi lenti di questo mondo, riuscire a parlare a lungo con i tohji, i produttori che per loro natura sono silenziosi. Assimilare la loro ritualità: ho ritrovato un po’ le mie radici. E mi è cresciuto dentro l’orgoglio di essere giapponese. Bevevo poco il saké, solo il 20% delle volte mentre l’80% preferivo il vino. Ma anche i produttori di saké amano il vino! Purtroppo molte aziende stanno fallendo, il mercato interno non tira più, ecco perché bisogna puntare all’estero. E io voglio fare da ponte tra le culture. A Milano dimostreremo con l’aiuto di alcuni chef che il saké si sposa bene con i piatti della cucina italiana”.

“In Giappone ci sono aziende in ogni campo che hanno secoli di vita. Il mio produttore di saké ne ha appena compiuti 400. E dietro queste storie familiari esiste una cultura del saper fare di valore inestimabile. Gli artigiani sono bravi con le mani ma non sanno comunicare. Così mi sono detto: se esistono le Biennali d’arte e di architettura come quelle di Venezia, perché non fare una cosa simile per l’artigianato? Ecco, è il mio progetto per l’anno prossimo: voglio organizzare una Biennale internazionale a Tokyo: e l’Italia deve essere in prima linea, festeggeremo così i 150 anni di rapporti commerciali tra i due Paesi”, racconta l’ex giocatore, preoccupato del patrimonio artigianale del Giappone.

Va avanti dritto per la sua strada e non intende chiedere aiuti o appoggi istituzionali, determinato e solitario proprio come quando giocava a calcio. “D’altronde i politici giapponesi non mi cercano, il riconoscimento me lo diede il vostro presidente Ciampi nel 2005 quando mi nominò Cavaliere con l’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana”.

Mirella Fanunza