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Le ragioni di Higuain che i robot non conoscono

Higuain quell'uomo dalle emozioni invalidanti nella notte con gli astri avversi, la notte con il cuore a metà tra ieri, oggi e domani. Tra Milan, Juventus...e River, la squadra che gli diede la vita che dall'altra parte del mondo, a distanza di dodici anni, gli è ancora indissolubilmente legata

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“Non sono un robot, sono un giocatore e sono una persona che sente molto certe emozioni”

Emozioni pesanti: un macigno che ti porta ad esplodere quando meno dovresti, se non altro per non sfigurare, lì dove tutto dovrebbe essere in perfetta uniforme. Ma Higuain alla Juve non c’è più e domenica sera quasi si è scrollato di dosso quell’uniforme formale che secondo lo stile Juve non dovrebbe mai permettere certi scivoloni. E infatti quando accade è male, quasi sempre, e pure alla Juve (vedi il tanto acclamato eroicizzato Buffon dopo Real-Juve schiantatosi con la realtà di una porta prontamente chiusa dinnanzi a richieste difformi al volere societario). Ma, ripeto, Higuain alla Juve non c’è più, e alle prime vederlo in maglia rossonera, contro i bianconeri, è quasi uno strido visivo.

Ma il vero strido è quello vissuto da lui e più che uno strido è parso uno strazio: lì a pagare il prezzo di quel macigno di emozioni; lì e in quel momento. Domenica sera, contro la Juve, a San Siro, nella sua nuova casa.

Il rigore sbagliato, l’ammonizione, la sfuriata costata l’espulsione e le due giornate di squalifica che gli impediranno di scendere in campo anche contro il Parma in casa fra tre settimane ma soprattutto la settimana prima in trasferta contro la Lazio.

Gonzalo si scusa e conoscendolo è sinceramente dispiaciuto per il danno arrecato alla squadra ma non così tanto dispiaciuto per sé stesso, perché forse di quello sfogo lui ne aveva un bisogno irrefrenabile.

Una scarica nervosa che come umilmente ammette, capita agli umani e agli uomini – aggiungerei. Lui che è umano e uomo insieme, lo è sembrato anche a dispetto di chi, al contrario suo ha fatto la figura del vincente, nella fattispecie Ronaldo.  Anche a dispetto di chi monta e smonta casi per poi venir trattato con attenzione privilegiata lì dove il privilegio fatica a capirsi e che, tra l’altro, ancora una volta non perde occasione per rivelarsi incredibilmente piccolo:  Bonucci, che ha espressamente chiesto di non scendere in campo per evitare incidenti diplomatici su quel campo dove di diplomatico il sopracitato non ha fatto proprio nulla se non (s)fuggire.

Nel peggiore dei modi, da vinto e perdente, Gonzalo si mostra più umano e uomo di chi quelle partite al posto suo le ha vinte tutte, avendo il coraggio di cadere persino nell’ennesima battaglia che sarebbe dovuta essere da parte sua perfetta, ma Higuain è pure e soprattutto questo e allora magari chissà, la perfezione, è proprio non essere perfetti.

Higuain non lo è, e neppure il suo Palmares condizionato spesso da un destino veramente tanto beffardo, al contrario di quel Cristiano Ronaldo che domenica ha esultato e festeggiato a casa sua, quella vecchia e quella nuova, quasi a ricordargli chi fosse CR7 e il motivo per il quale ha preso quel posto sottraendolo a lui.

Quel 2-0 siglato Ronaldo e un rigore nel primo tempo di cui nervosamente si era preso possesso ma neutralizzato da Szczesny (più lucido di lui suo malgrado), e infine un fallo fischiato in disaccordo, la reazione, l’espulsione e le lacrime scattano una fotografia icona di una serata da incubo per il Pipita, apparso al mondo mai tanto debole e vulnerabile, trovatosi al centro di un allineamento astrale avverso.

Ma quella, per lui, era proprio una serata particolare e per capirne i motivi forse sarebbe necessario fare un viaggio lungo più di sedici ore.

11 novembre 2018, ore 16.00

Buenos Aires, Bombonera, stadio del Boca Juniors: si gioca la partita di andata di Copa Libertadores, il trofeo più importante per club del Sud America, ma ad andare in scena è una partita tutt’altro che qualunque. A giocarsela sono le più grandi e le più tifate squadre di tutta l’Argentina, e le più ricche tutto il Sudamerica: Boca Juniors da un lato, River Plate dall’altro.

Quella che sta per andare in scena è la partita più attesa della storia del calcio argentino: per la prima volta nella storia infatti le due squadre di Buenos Aires si scontrano in finale di Copa Libertadores. Per rendere l’idea di quanto il match sia di una caratura sovrannaturale basterebbe fare un giro per le strade della capitale argentina dove tutto è blindato da settimane proprio per scongiurare scontri che, ridando una lettura alla storia, potrebbero risultare più che devastanti. Le due squadre si sono scontrate 368 volte ma sono soltanto 24 gli scontri in Copa Libertadores: 24 incontri e mai una finale, non fino a domenica almeno.

Il match di qualche giorno fa, conclusosi 2-2, non è riuscito ad indiziare un papabile vincitore tra le due fazioni che, per una ragione, o per un’altra non vorrebbero mai cannare l’occasione. L’ultima volta che si è disputato un Superclasico di coppa risale al 2015 e si giocavano gli ottavi di finale, a fine primo tempo della sfida di ritorno (questo sarà l’ultimo anno in cui si disputerà la finale doppia, dal prossimo la finale sarà sfida secca) la partita è stata sospesa per poi essere assegnata, a tavolino, al River: durante la partita infatti gli xeneizes, tifosi del Boca, hanno gettato del gas urticante contro i tifosi del River, scatenando l’inferno.

Curiosità sul Superclasico

Entrambe le squadre parlano italiano, o meglio, genovese. La prima gara tra le due squadre risale al 24 agosto 1913. Da allora, ci sono state 372 sfide affascinanti quanto infuocate ma, se ad inizio ‘900 non ci fosse stata l’immigrazione di tanti nostri concittadini nella nazione di Maradona e Messi, probabilmente tutto questo non sarebbe mai successo.

I fondatori del Boca Juniors, infatti, partirono dal capoluogo ligure e, una volta giunti nell’altro capo dell’oceano, ebbero l’idea di dare vita ad una squadra di calcio. Non a caso, i supporter gialloblù si chiamano Xeneizes, molto assonante al Zeneizi che in dialetto genovese indica proprio gli abitanti della città della lanterna. Xeneizes” (“Genoese”).

Lo stadio “Bombonera” si trova nel barrio de la Boca che prende il nome dal quartiere genovese Boccadasse.

Passiamo, invece, al River Plate: i colori sociali sono il bianco ed il rosso, gli stessi della croce di San Giorgio, simbolo proprio della città di Genova. Inoltre, il club è nato dalla fusione di Rosales e Santa Rosa che erano stati fondati proprio da genovesi.

Possiamo tranquillamente affermare, quindi, che il Super Clasico abbia preso i suoi natali nella città di Genova.

Il Superclásico è uno degli eventi sportivi più gettonati al mondo, tanto da essere inserito dal The Observeral top nella lista delle 50 cose sportive da fare prima di morire.

E allora chissà come l’avrà vissuta quella partita Gonzalo Higuain, quella stessa partita che si sarebbe dovuta disputare il giorno prima e che invece a causa della tempesta abbattutasi su Buenos Aires è stata rinviata al giorno successivo, proprio mentre a San Siro si sarebbe disputato Milan-Juventus. E chissà quanto il cuore del Pipita fosse parzialmente altrove al momento di scendere in campo, chissà se un po’ del suo cuore fosse proiettato su quel Boca-River e chissà se anche solo un pochino avrebbe voluto ancora poter giocare quella partita storica, lui che con la storia del River ha un intrigato filo conduttore praticamente inscindibile da se stesso.

Sì perché Gonzalo Higuain parte da molto lontano; quel ragazzo tanto prodigioso dal nasone rosso che domenica è esploso (e non nel modo che gli riesce meglio), lo stesso che ha fatto impazzire l’Italia a suon di reti, uno tra i marcatori più prolifici del calcio nostrano e che ha diviso l’Italia in due all’epoca del passaggio dal Napoli alla “G”iuve e che ha ancora una volta diviso l’opinione pubblica dopo essere stato scaricato per far spazio a CR7, ha una storia che va oltre la Juve, oltre Napoli e addirittura oltre il Real. E questa storia, di certo meno nota alle cronache rispetto al motivo per il quale è tra i gerarchi della lista dei ‘Cori ngrati’, ha a che fare con quella maglia che, ironia della sorte, porta entrambi i colori di quelli che domenica sono stati il dissidio di Higuain: il bianco e il rosso. Più grande della Juve e pure del Milan, quella maglia che a Higuain gli regalò la vita e alla quale il Pepa resterà legato, forse, per sempre.

Che ironia a volte la vita! Due destini appesi ad un comune denominatore: il pallone.

Da un lato il River che si giocava parte di rispettabilità della sua storia, dall’altra Higuain, figlio diretto di quella stessa squadra che solo mezzora prima rispetto a lui era scesa in campo e che però a differenza sua due reti le ha prese, ma anche segnate, rimandando a casa propria, allo stadio “El Monumental”, la resa dei conti, nonché giudizio finale.

Higuain nasce il 10 dicembre 1987 da Juan Higuain e sua moglie Nancy, terzo di tre figli. Il padre Juan, calciatore, si era appena trasferito in Francia e Gonzalo nasce infatti in terra francese, a Brest di preciso. Dopo qualche mese la famiglia torna in Patria ma le difficoltà arrivano quando a soli dieci mesi il piccolo Gonzalo si ammala di meningite fulminante dalla quale  non solo riesce a salvarsi contro ogni pronostico, ma guarisce completamente tanto da permettergli a otto anni di iniziare ad intraprendere la sua più grande passione innata: calciare palloni.

Inizia a giocare nel Club Palermo, squadra del barrio mas grande de la Capital, a dieci anni però viene tesserato nelle giovanili del River Plate dove crescerà sempre più sotto i riflettori e il 5 maggio 2005 esordisce contro il Gimnasia y Esgrima La Plata. Qualche mese dopo arrivano il primo gol, la prima Copa Libertadores e la consacrazione; era il 2006 e Gonzalo si presentava al calcio mondiale prendendosi il ruolo di protagonista del match contro il Corinthians segnando due gol che regalarono il passaggio del turno ai quarti di finale.

Sempre nello stesso anno Higuain, che aveva già conquistato il cuore dei tifosi biancorossi, si auto-istituì leggenda del River: a 18 anni Pepa jr segnava non una, ma ben due reti al Boca Juniors, uno più bello dell’altro, di cui uno di tacco che fece esplodere e ardere oltre che la Bombonera, eterno stadio rivale, e la sua carriera.

Da lì il misterioso affare del suo cartellino, ancora poco chiaro ai più, acquistato per il 50% da una società d’investimento privata che esborsò 6 milioni di dollari. Il 14 dicembre 2006 Ramon Calderon, presidente del Real Madrid, presentò alla stampa un certo argentino il cui cartellino rilevato dal River Plate costò 13 milioni di euro alla società blancos che era riuscita a bruciare tutte le rivali che stavano provando a contendersi il giovane.

 “La sua forza è grande quasi quanto la sua umiltà”

E di umiltà Gonzalo infatti ne ha tanta, lo dimostra la sua indiscussa leadership oltre i riflettori, quella che lo porta ad aberrare persino l’idea di dover portare una fascia al braccio da capitano, lui che non ha e non vuole averne bisogno di una fascia da leader per esserlo, lui che domenica quel rigore ha voluto calciarlo perché si sentiva di farlo, non perché voleva dimostrare di essere superiore.

O forse sì, forse quel giorno voleva metterla da parte quell’umiltà che troppo spesso l’aveva fregato e che l’aveva poi fatto finire ad andarsene di casa per far posto al Narciso di turno che per ben due volte portava il cognome Ronaldo e il nome Cristiano, lo stesso che qualche minuto prima di quel maledetto giallo aveva deciso di imporsi ancora una volta nella scena che per diritto sarebbe spettata al Pipita.

Poteva e avrebbe dovuto essere la serata della rivalsa per Higuain ancora fin troppo ferito per dissimulare, ma purtroppo per lui non lo è stata, e se i suoi vecchi compagni lo consolano quasi sconfortati insieme a lui, c’è chi addirittura se la ride. I Napoletani dal basso delle pendici del Vesuvio fischiettano con tanto di ghigno “Nun sputà ‘n cielo, ca ‘n faccia te torna” ripensando a quel biglietto di solo andata per Torino che Gonzalo non pensò due volte ad obliterare sul binario “per andare a vincere qualcosa”.

E allora a Napoli si staranno chiedendo se si sia mai pentito di essere andato in quella società che, sedotto e abbandonato, non gli ha mai dato ciò che a Napoli avrebbero voluto garantirgli a vita: rispetto, dedizione e venerazione come solo con gli dei si fa e come solo a Napoli sanno fare, specie se c’è del mate di mezzo.

Ma Gonzalo non è primo nelle scelte rivelatesi poi sbagliate, almeno in fatto di profitti. Il Pipita infatti, nato in territorio francese, lo è per diritto secondo lo ius soli, motivo per il quale gode di cittadinanza e passaporto, prerequisiti che avevano fatto squillare il telefono del Pipita a tempo di Nazionali ma Higuain non ha mai avuto dubbi a riguardo: è argentino e tale vuole essere, scelta che lo ha portato a preferire sempre e comunque la maglia albiceleste malgrado l’altalenante rapporto instauratosi tra lui e la Seleccion negli anni e malgrado sia un amore che con i connazionali stessi non è mai sbocciato a pieno neanche quando, con il cuore trafitto è stato spedito a casa dal Mondiale, probabilmente il suo ultimo, nel peggiore dei modi e da quell’altra casa che lui ha mai ha considerato tale e che, a dispetto suo, quella Coppa del Mondo l’ha sollevata suo malgrado.

E allora chi sa se quel 15 luglio al Pipita sarà affiorato il pensiero di come sarebbe stato se avesse preso una decisione diversa.  Se lo stesso pensiero gli sarà riaffiorato qualche settimana dopo, quando  quella che lui aveva scelto come casa gli aveva voltato le spalle, quando all’umiltà è stato preferito il narcisismo, e chissà se domenica su quel dischetto e davanti a quell’arbitro, a ripensarci, avrebbe preferito essere anche lui un po’ più robot  all’essere uomo.

 

Egle Patanè

 

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