Ci sono cose che non posso fare a meno di invidiare alla Roma.
Una di esse è l’inno, cantato a una sola voce dagli ottantamila dell’Olimpico tra un pullulare di sciarpe e bandiere giallorosse che sventolano senza sosta.
L’altra è quel vincolo viscerale, istintivo, che riescono a stabilire con certi giocatori, sollevandoli quasi a deità, facendoli diventare indispensabili quasi quanto l’aria che respirano.
Per me, che vengo dalla tradizione sabauda bianconera dove tutti – persino l’Eterno Capitano Alessandro Del Piero – sono utili e nessuno è indispensabile, fa sempre un certo effetto.
Quando l’estate scorsa ho visto Paulo Dybala accolto come una sorta di Imperatore al Colosseo Quadrato, in mezzo a una fiumana di gente che avrebbe fatto impressione pure al più avvezzo dei divi, una cosa mi ha colpito.
I tifosi giallorossi erano al corrente del modo traumatico con cui Dybala si era appena separato dalla Juventus.
Lo guardavano e non potevano vedere sul viso quella tristezza inequivocabile, che viene dall’aver appena detto addio all’amore della tua vita.
A loro tuttavia sembrava non importare.
Non sembrava importare se questo argentino dagli occhi tristi aveva passato ben sette anni con un’ avversaria palesemente mal sopportata e ne era stato pure perdutamente innamorato.
Semplicemente, non vedevano l’ora di goderselo.
E così hanno fatto.
Subito dopo la sventurata finale di Europa League, mi sono trovata a condividere i miei pensieri con Elisa Licciardi, la nostra redattrice giallorossa. E le sue parole su Paulo sono state queste:
Lo vedi che è sincero, che è trasparente. E credo che è questo che i tifosi della Roma hanno capito. Perché lui qui a Roma è Dio. E io di Dio a Roma ne ho visto solo uno. E non voglio fare paragoni, ma…Quel Dio è Totti.
Ora, lungi da me scomodare il Capitano dei Capitani – del resto anche Elisa ci è andata con i piedi di piombo – ma io stessa, quando l’attaccante di Laguna Larga si è presentato all’ombra del Colosseo, avevo auspicato un legame del genere.
Perché in fondo Paulo Dybala e la Roma cercano la stessa cosa.
Al di là del trofeo – che è importante e sarebbe assurdo sostenere il contrario – quello che condividono è il senso di appartenenza.
Quella sensazione meravigliosa per la quale ti sembra di avere a casa un amico, o un fratello, uno dei “tuoi”.
Quell’amore quasi predestinato, che ti fa chiudere un occhio su eventuale difetto, basta ti regali una magia, un gesto d’altruismo, basta che si dia.
In questo, Dybala e il popolo giallorosso viaggiano essenzialmente sullo stesso binario.
In questo non posso fare a meno di invidiare la carnalità, il legame creatosi tra Paulo e la gente di Roma in così pochi mesi.
Non che a Torino non fosse amato, ma quanto se l’ è sudato, quell’amore. E una folata di vento poi lo ha spazzato via.
Non per tutti, certo, non per tutti. Io sono ancora qua a raccontarlo, a seguirlo, a cercare di capirlo.
A cercare di capire – e le capisco – quelle lacrime amare, quelle parole dedicate alla sua gente dopo la serataccia del 31 maggio, provando a dare il mio sostegno ancora per quanto possibile, perché forse davanti a certi amori non si riesce a restare indifferenti.
Pare che questo tipo di calcio sia vistosamente fuori moda.
Sicuramente è così.
In un mondo come quello del calcio attuale, forse, la Joya e la Roma sono figli degli ultimi romantici, ritrovatisi un po’ per destino, un po’ per caso.
Non so, onestamente, quanto durerà questa storia, ma è bella da narrare.
E comunque vada, ovunque vada, sono sicura che Paulo Dybala dirà sempre, con orgoglio, di essere stato un figlio di Roma.
Daniela Russo