La Juventus non è più Juventus. Questa la dura e austera sentenza di buona parte della tifoseria bianconera quasi esasperata, certamente stanca, di quell’allegrismo che continua ad aleggiare in quel di Torino tra Continassa e Allianz Stadium e che tra un campo d’Italia e uno d’Europa continua a snaturare la Vecchia Signora del suo stesso dna.
Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta, disse un tempo quel tale chiamato Boniperti, frase che rimase scalfita nel corredo genetico di tutto quel mondo che è la Juventus dove vincere è sempre stata, appunto, l’unica cosa che conta. Motto fatto proprio da ogni bianconero incamminatosi sulla via di Vinovo, pure e soprattutto da quel Luciano Moggi che nell’attuarlo ha esasperato sfociando in una megalomania che alla fine non ha portato a un gran che di buono.
Da quel triste capitolo calcistico senza dubbio ingiurioso per chiunque la Juventus ha presto cambiato pagina con la risalita in Serie A e soprattutto con Antonio Conte che riportò la Juventus lì dove era abituata a stare: sulla vetta della classifica e il trono d’Italia. Nessuno meglio di Antonio lo sapeva e infatti vincere (seppur 1-0) era diventato un pragmatismo ancor più che una filosofia. Ma ogni amore è destinato a finire e pure il migliore dei condottieri spesso finisce fuori dalla prima linea e ad Antonio succede Allegri che di allegria, ai rivali, ne ha portata pure tanta: da Berlino a Cardiff, passando per Monaco senza dimenticare Madrid e il fantomatico bidone d’immondizia a posto del cuore.
Se nella gara di Madrid dello scorso anno Buffon parlava di bidoni dell’immondizia al posto del cuore, chissà cosa avrebbe detto l’ex capitano bianconero della gara a Madrid di qualche giorno fa conto l’Atletico al Wanda Metropolitano, del primo gol di Morata con la maglia biancorossa annullato per una spintarella, per la simulazione di Bonucci alla Busquets, ma soprattutto della reazione di Simeone al raddoppio che è valsa la vittoria dei colchoneros.
Già. Chissà cosa starà pensando Buffon, quel giocatore finito che questa UCL la sta ancora giocando, non solo con i guantoni al posto della cravatta che gli si voleva imporre, ma anche con la tranquillità di un 2-0 (a favore) – nella partita d’andata degli ottavi – contro un avversario che alla Juve invece ha imposto più di un semplice pensiero. Il PSG, che con tanto di rete del ragazzetto Campione del Mondo ha vinto 2-0 contro un Manchester persino migliore e di gran lunga più ordinato e voglioso di quello che allo Stadium qualche mese fa alla Juve le ha date con tanto di titoli di coda, dispone di un Gigi Buffon che contro i Red Devils come in altre occasioni si è rivelato decisivo.
E chissà cos’avrà detto e pensato la settimana successiva quando la sua Juve, protetta tra i pali dal suo successore a lui anteposto, ne ha presi tre (di cui uno annullato) e soprattutto chissà cosa avrà pensato della reazione di cui Mister Diego di Buenos Aires, che come lui a Madrid, si è reso protagonista attirando piogge di critiche ma anche elogi.
Chi conosce il Cholo lo sa
Diego è proprio fatto così, con il fuego argentino che scorre dentro quelle vene pulsanti, nelle quali asfissiare e spegnere certi passionali sentimenti è fin troppo difficile persino per una mente tanto intelligente come la sua. Cresciuto con la leadership insita e la tracotanza di grinta e forza che sono da sempre la miglior espressione de su alma, chiudersi negli schemi gli è sempre riuscito male, specie se quegli stessi sono d’apparenza più che di sostanza. E provate a fermarlo allora uno che pur di tornare ad accelerare la convalescenza ingurgitava ‘cartilagine di maiale’, provate a fermare quell’ammasso di nervi ancor più di muscoli che in campo sembrava – e spesso era – impossibile contrastare e altrettanto da prendere.
Fermarlo e acquietarlo non è mai stato semplice per nessuno, fargli cambiare idea ancor di più. L’uomo dall’incazzatura facile e dai nervi tutt’altro che saldi, da allenatore come da giocatore, difficilmente si riusciva (e si riesce) a raffreddare nel bel mezzo delle eruzioni di adrenalina che talvolta lo colgono e per comprenderne tale aspetto basterebbe forse conoscere il suo vissuto giusto soltanto più di un pochino.
Non sarebbe difficile cogliere i tratti principali di quel carattere straripante di sentimento ed emozioni e per chi lo conosce più del pochino di cui sopra, conoscere il conto da sempre aperto con la Juventus che sembra non chiudersi mai, sovviene persino lapalissiano.
Forse conseguenza di quel 26 aprile ’98 mai davvero relegato nell’oblio da chi, come lui, calcava quel surreale terreno del Delle Alpi, Diego alla Vecchia Signora ha sempre concesso poco se non in quello strano e lontano 5 maggio quando alla Juve il regalo lo fece e in maniera parecchio sconcertante, ma forse quello fu un regalo d’eccezione. La prima rete in maglia biancoceleste la segnò proprio ai bianconeri, gli stessi che in compenso gli regalarono una delle gioie più grandi legate all’Italia: lo scudo. Mentre al 59′ Diego Simeone calava il tris alla Reggina in casa all’Olimpico, al Renato Curi tra fango e pozzanghere si consumava l’agonica attesa dell’inizio del secondo tempo di Perugia-Juventus (che Collina decretò con un’ora di ritardo rispetto all’orario previsto per la troppa pioggia), match finito 1-0 con gol di Calori e la Juve che lasciava sfilare uno scudetto finito per essere incassato proprio dal signore in questione.
Quello che intercorre tra Diego e la Juventus è tutt’altro che amore e quell’esultanza detonata mercoledì 20 febbraio 2019 al Wanda Metropolitano è solo l’estrinsecazione di un sentimento incubato per ben più di soli 78 minuti e che l’appoggio di Morata su Chiellini valso l’intervento del VAR per l’annullamento, così come il rigore finito con l’essere tramutato in punizione, sono stati soltanto una piccola goccia di quel vaso traboccato in quel gesto tutt’altro che carino ma – diciamo la verità – alla Simeone.
Un gesto – come ha ricordato Di Marzio ma corretto dal suddetto (nel ricordo storpiato) – che rimanda ancora una volta ad un Simeone calciatore ieri nient’altro che essenza di Simeone allenatore oggi, un po’ come a ricordare che il Cholo è solo esclusivamente cresciuto ma mai snaturatosi.
Dopo varie speculazioni del caso e altrettante riflessioni verrebbe da chiedersi quanto ci sia di tanto abominevole in un atto di sincera rappresentanza di se stesso.
Se da un lato c’è un gesto non di certo di nobiliare eleganza, dall’altro c’è la spontaneità di un momento che di fatto cozza solo con chi usa l’arma del moralismo per alzare un polverone a base di polemiche; d’altronde si sa, spostare l’attenzione sulla mano sinistra per mascherare come si agisce con la destra è il più sdoganato dei trucchi dei prestigiatori. Come tale, trovare un caso mediatico di cui discutere sarebbe panacea di quelle ferite da taglio delle lame del nulla volate ‘nel circo’ bianconero imbastito in campo, ma l’alibi è la scusa dei perdenti e questo lo diceva lo stesso Gigi (finito poi a parlare di immondizia al posto del cuore).
Intanto il gesto di Simeone ha fatto specie e le opinioni in merito sono piuttosto controverse nonostante l’argentino abbia più volte spiegato che non si trattava di ingiuria o provocazione nei confronti dei bianconeri; tuttavia il tecnico dell’Atletico è stato consegnato in pasto all’opinione e potrebbe persino essere multato per il gesto.
Nel frattempo c’è chi sui esagera ed esaspera e il web impazza, i social nella fattispecie, nel vero senso del termine: pullulano commenti sconcertanti e piovono gli insulti esacerbati nei confronti di Simeone; c’è chi addirittura augura le peggiori cose persino alla bambina appena nata. E chissà a questo punto chi è ad avere i bidoni dell’immondizia al posto del cervello, più del cuore.
Polemiche su polemiche, chi si schiera dalla parte dell’allenatore colchoneros e chi lo condanna inverosimilmente.
Anche questa volta, quasi come tutte le volte in cui c’è del tragicomico, si inserisce la figura di Leonardo Bonucci che sul primo gol dell’Atletico si stende nell’area piccola sperando in un “Morata-Chiellini 2.0”, se non fosse che a riprenderlo ci sono le telecamere, e questa volta non del VAR. Il Leo spesso moralista e raramente moralmente, apre l’occhietto e simula un Busquets in Barcellona-Inter di anni fa. Il gesto, anche questo non passato inosservato, inasprisce altri commenti e c’è chi tira in ballo la paternale in cui l’ex capitano rossonero si era dilettato dopo quello Juventus-Manchester finito 0-2, anche in quel caso finito tra le polemiche per un altro particolare gesto, non esattamente un’esultanza ma, al contrario, una gran bella provocazione, voluta, piena di (ri)sentimento.
José Mourinho, nella gara d’andata tra Juventus e Manchester, giocata in Inghilterra e persa dai Red Devils, era stato più volte preso in ballo dagli ospiti in maniera tutt’altro che carina, ai quali il tecnico portoghese si rivolse mostrando loro le tre dita in segno di ‘triplete‘.
A quella iniziale e provocatoria risposta succede quella della gara allo Stadium vinta questa volta dal Manchester United, al termine della quale Mou si rivolge platealmente ai tifosi bianconeri portandosi una mano verso l’orecchio come a dire ‘Non cantate più? Non avete più niente da dire adesso che vi ho battuti? Non vi sento‘.
Anche in quel caso le più svariate considerazioni della cosa hanno tenuto banco per giorni e giorni e anche in quel caso – come in questo – tra la Juve, la sconfitta e il gesto ‘fastidioso’ si interponeva un fattore ridondante: l’Inter.
Che fosse di Simeone o di José, quest’anno l’interismo è venuto a scoprire le carte e far saltare i bulloni e magari a dar più fastidio è proprio questo: un interista dentro che squarcia il velo di Maya bianconero mostrando una Juve mutata geneticamente. Un dna che sembra quasi non appartenere più a quella Juventus di cui Boniperti parlava, trasformandola in una realtà in cui fino alla fine sembra esser rimasto solo un gran bel circo. Lo stesso circo al quale invitava ad andare Allegri se di divertimento si voleva godere, se non fosse che in questo caso di divertente non è rimasto neppure il risultato.
Egle Patanè