Io, la fidanzata di un ultrà, vittima della cosiddetta “mentalità”

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Esiste l’amore per la ragazza, l’amore per la squadra e quello per il gruppo. Sono tre sentimenti diversi.

Mai una frase più appropriata può essere riconducibile alla “realtà della curva”: me ne convinsi fin dalla prima volta che l’ascoltai, mentre guardavo il video-cortometraggio “E.A.M.”, ispirato alla vita e alla “mentalità” dei Fedayn, uno dei gruppi storici del tifo organizzato che anima la Curva B dello stadio San Paolo.

All’epoca ero fidanzata con “uno di loro”, uno di quelli che trascorre 90 e più minuti dando le spalle al campo, per incentivare il pubblico sugli spalti a sostenere la squadra, in piedi sulle inferriate che affacciano sull’inquietante fossato del San Paolo.

Quando l’ho conosciuto, tra i banchi dell’università, ignoravo dell’esistenza di quella“doppia vita”. Era un ragazzo “normale”, un po’ fuori dagli schemi, ma terribilmente premuroso e pieno di attenzioni. Dal lunedì al sabato, però. E questo lo scoprì non appena iniziò il campionato.

31 agosto 2008: Roma-Napoli, quella “famosa” partita tacciata di vari e confusionari episodi di violenza, fu “la nostra” prima trasferta.

In maniera molto evasiva, poco prima della partenza mi disse: “Vado a Roma a vedere la partita con i miei amici, ci sentiamo quando torno.”

Già, durante le trasferte e durante il tempo da dedicare con totale e servile venerazione alla squadra e al gruppo, non c’era posto per nient’altro. Il suo cellulare era sempre spento e dubito fortemente che lo portasse con sé. A seconda del rilievo della partita e dei relativi episodi annessi, quel telefono poteva riaccendersi anche a distanza di diversi giorni.

Uno strazio, un’agonia, un’attesa lancinante, soprattutto quando i media diramavano notizie di scontri e tafferugli.

Con il trascorrere del tempo e con l’incalzare di episodi per me inaccettabili, quella forma mentis che lui definiva “mentalità ultrà” mi appariva sempre più difficile da decifrare, capire, accettare.

Lui abbandonò l’università per dedicarsi anima e corpo al lavoro. Un impiego di prestigio, più che ben pagato ed onesto. Era “un uomo di legge” che se ne andava in giro in giacca e cravatta, ben pettinato e masticando un italiano forbito, di giorno, per poi vestire giubbotto di pelle e fare da bullo, di sera, quando, tra le strade del centro storico o nel cuore di piazza Bellini, si radunava con “i fratelli” oppure prendeva parte alle riunioni con gli altri esponenti dei gruppi organizzati di ambedue le curve.

Ben presto scoprì che era un “finanziatore”: ovvero, buona parte degli introiti che guadagnava lavorando di giorno, finivano nelle casse del gruppo di sera, per supportarne le spese. Trasferte, biglietti aerei, striscioni e quant’altro necessario per “sostenere” la squadra nel rispetto della mentalità sulla quale si fondano gesta e azioni del gruppo.

Ritardi, appuntamenti saltati, litigi, discussioni, rinunce, privazioni, ben presto divennero il pane quotidiano del quale si nutriva la nostra relazione.

Soffrivo perché non riuscivo a comprendere quello scellerato e indomabile bisogno di mettere tutto a repentaglio per assecondare dogmi e dinamiche dettate da quella che è una “setta” a tutti gli effetti.

Spesso accadeva perfino che mentre eravamo soli a casa sua, intenti a goderci quei rari scampoli d’intimità, la magia di quegli attimi venisse interrotta da autentiche incursioni da parte dei “fratelli”: noncuranti della mia presenza, disponevano di casa sua con una familiarità che faticavo a riscontrare nei miei stessi atteggiamenti.

Il disagio frammisto a imbarazzo cucito sul suo volto erano più eloquenti di mille parole. Una sorta di “vorrei, ma non posso” camuffato da sguardi schivi e sorrisi forzati ed amari. “Vieni qui, siedi in braccio a me!”: era il principio di compensazione che attuava per tastare il mio livello d’incazzatura. Sapeva che era terribilmente sbagliato e che poteva essere tutto diverso se solo avesse avuto il coraggio di ribellarsi a quello stato di cose che stava avvelenando il nostro rapporto e lasciare che la sua, la nostra vita fosse scalfita da impegni e passioni “sane”.

La mia insofferenza, il suo disagio, la follia che franava nel nostro amore, raggiunsero il punto di non ritorno quando arrivai a conseguire la laurea. Era felice, felicissimo, infinitamente orgoglioso  appagato dal fatto che avevo ultimato per entrambi quel percorso che lui aveva lasciato a metà. Tuttavia, la sera della festa con i miei amici, doveva essere un momento di gioia che ai suoi occhi apparve come un severo banco di prova: e se mi sento un pesce fuor d’acqua?

Questo l’enigma che logorava i suoi pensieri, svilendo la semplice voglia di festeggiare della sua più pratica essenza.

Così, per raggirare l’ostacolo, decise di presentarsi con i suoi amici. “I fratelli”, i compagni di curva e di tifo.

Una volta giunto al locale, però, mentre mi stringeva forte tra le sue braccia, scoprì che quel mondo, il mio mondo, non era poi così male e con i miei amici il feeling fu immediato.

L’impatto non fu lo stesso per i suoi amici che annoiati e spazientiti, si fecero consegnare le chiavi della sua auto e lì rimasero tumulati, fino a fine serata.

Lui fu costretto ad andar via, senza di me. Io non sarei mai ritornata con lui, in compagnia di quell’allegra banda, perché volevo che capisse. Non ero io a collocarlo davanti a un bivio, ma la vita che con sempre più marcati e inequivocabili tratti sanciva l’incompatibilità tra quei due mondi, incapaci di convivere, ancora, nella sua vita.

La sua gelosia divenne morbosa, ma era un impermeabile che camuffava una disperata paura di perdermi. Una guerra di nervi, combattuta a suon di lacrime, frasi urlate con rabbia ed abbracci capaci di fermare il tempo.

Di lì a poco, giunse la vera stangata: la diffida.

Durante una delle “solite” e concitate trasferte, nell’ambito di alcuni scontri sorti tra ultras ed agenti della Digos, fu identificato e sanzionato con il severo provvedimento.

Capì immediatamente che quella volta era accaduto qualcosa di serio: il telefono si riaccese dopo ben quattro giorni e non riuscivo in nessun modo a mettermi in contatto con lui.

Quando a testa bassa e con un sorriso forzato pronunciò la parola “diffida”, per la prima volta, trovai la forza e il coraggio di lasciarlo all’istante. Senza sentire ragioni, senza ascoltare alibi e scusanti. Seguirono giorni che si tramutarono in settimane densi di gesti folli, disperati, estremi, capaci di esternare un sentimento vero, ma tormentato, perché incapace di liberarsi dell’unico fardello che ostruiva il naturale corso di quell’amore.

Al cospetto dell’ennesima serenata, prevalse la rabbia di chi vuole credere che l’amore può vincere su tutto e tutti e decisi di non volerla dare vinta alla “mentalità”.

Tornammo insieme e mi dissi: “l’amore può cambiarlo. Per amore può cambiare.”

Poi, una sera, nel cuore della notte, fummo svegliati di soprassalto da due “fratelli” che battevano con forza i pugni contro la porta. Avevano avuto “guai” con “le guardie” e gli serviva un posto sicuro dove passare la notte.

Quella sera si, lo misi davanti a una scelta: “se fai entrare loro, vado via io e non torno più”.

Erano le 3 di notte e non ebbe il coraggio di metterli alla porta. Non ebbe nemmeno il coraggio di guardarmi negli occhi, mentre, a testa bassa, mi vedeva uscire di casa e dalla sua vita.

Quella notte, trascorsa a girovagare in auto, masticando lacrime di rabbia, cambiò per sempre le sorti del nostro rapporto.

Non potevo credere che avesse accettato di lasciarmi andare così, un paio d’ore dopo aver fatto l’amore, per proteggere due teppisti che ci hanno svegliato di soprassalto, mentre dormivamo abbracciati.

Trascorsero mesi, tanti mesi, di lui non ebbi più notizie. Come se fosse sparito nel nulla. Poi, una sera, dopo quasi due anni, mi arrivò un messaggio: “Sto partendo, vado via da Napoli, per sempre. Avevi ragione tu, hai sempre avuto ragione tu, solo dopo che ti ho perso me ne sono reso conto. Perdonami, se puoi, per tutto il male che ti ho fatto… una parte di me ti amerà per sempre ed è da quella parte che voglio ripartire per costruire la mia nuova vita.”

Tante, tantissime volte me lo sono chiesta: come sarebbe evoluta la nostra storia, se non fosse stata intralciata dalla “mentalità”?

Meglio non saperlo, farebbe solo più male, ripensando a quello che poteva essere e non è stato. E non sarà. Mai più.

Luciana Esposito

(immagine presa da Napolitan.it)