L’avventura di Federico Dimarco al Parma inizia tra diversi interrogativi specie da parte dei tifosi che sconoscevano quasi totalmente il difensore classe ’97 cresciuto nel vivaio nerazzurro e poi venduto al Sion nel luglio 2017 dal quale viene riacquistato un anno dopo poco prima di approdare al Parma con un contratto a titolo temporaneo. Malgrado si trattasse di una scommessa con data di scadenza il 30 giugno 2019 – la possibilità di esercitare il riscatto (e il diritto di recompera per i nerazzurri) – i dubbi sono inevitabilmente poco biasimabili se la posta in palio è la Serie A.
Ma il tempo è galantuomo e le soddisfazioni prima o poi arrivano per chi ha la pazienza di aspettare e ha aspettato tanto Federico Dimarco che trova il primo gol in Serie A amaramente ieri pomeriggio contro chi lo ha aspettato tanto.
Un siluro dai 39 metri, dirompente quanto inaspettato soprattutto per Samir Handanovic che vede la palla soltanto dopo essersi affondata alle sue spalle. Proprio lo sloveno lamenta una possibile irregolarità in occasione del gol: al momento del tiro di Dimarco la visuale dell’estremo difensore era coperta dalla presenza di un giocatore del Parma non permettendogli una condizione idonea a seguire tantomeno intercettare la palla.
“Non ho visto partire il tiro avendo la visuale coperta ma non cerchiamo alibi“
Un gol ad ogni modo tanto veloce da non essere captato sulle prime neppure dai presenti, tanto imprevedibile e d’istinto persino per se stesso da non riuscire a frenare quell’esultanza di liberazione che suonava a mo’ di gemito rabbioso.
Freddato il Meazza in quell’alone di stupore generale che ha impietrito persino dietro gli schermi e un inevitabile ghigno che pronuncia silenzioso un “mannaggia a te Federico ma proprio tu?” a mo’ di sincera pacca di congratulazione. Solo applausi e nient’altro meriterebbe quel ragazzino cresciuto tra i campetti di Appiano che ha mandato in tilt chi, al contrario, dovrebbe meditare prima di tutto.
Meditare su cosa non va e su quanto lavoro ci sia clamorosamente da fare: quattro punti in quattro partite per i nerazzurri che precipitano, se non in classifica, in un vortice di interrogativi.
Dopo aver condotto gran parte della gara, l’Inter come da manuale subisce gli episodi senza poi riuscire a reagire nell’immediatezza, incassando flop talvolta inspiegabili ad onor di logica. Quello di ieri per esempio brucia più di altri proprio per il modo in cui è arrivato così come Spalletti stesso ammette, soprattutto perché alle porte c’è il Tottenham anch’esso sconfitto in Premier ma con Herry Kane lì davanti che non cede di certo il passo all’emozione perdendosi sul più bello lì dove tutto sembra ormai fatto, così come solito fare dalle parti di Milano.
Handanovic difende Spalletti, “le colpe non sono tutte dell’allenatore” – dice ai microfoni nel post partita – e d’altronde difficilenon convenire con lui quando richiama alla coscienza i compagni colpevoli quanto lui di non riuscire, evidentemente, a mettere in pratica quello che il tecnico vorrebbe che si faccia. Innegabilmente qualcosa a questa rosa non quadra e l’inceppo non sembra più quella povertà qualitativa che il tecnico – giustamente – reclamava fino a giugno. Costruita a sua immagine e somiglianza questa squadra necessita una calibratura e taratura ancora lontani e il lavoro per il tecnico di Certaldo dovrà davvero essere duro senza tener conto di nulla se non delle statistiche che demonizzano un inizio ai minimi storici che più che storcere i nasi inizia davvero a preoccupare.
Settanta abbondanti minuti di gestione nerazzurra bellamente archiviati da una fame di vittoria che – salvo sui social – tarda ad impossessarsi dei loro intenti. Troppo morbidi e molli gli intenti di Keita che toppa la prova di ieri, lasciando un’impronta talmente flebile da essere sostituito immediatamente all’inizio della seconda frazione di gioco, rivelatosi meno d’impatto degli altri, sempre prontamente ribattuto e fermato nelle giocate e nei guizzi, esempio lampante di quanto detto prima a proposito del lavoro da fare ancora lungo e macchinoso.
E se di macchinoso parliamo non si può non restare intrappolati nella barocca trama che è stata la manovra alla quale l’Inter ricorreva continuamente. La forzata e stentata ossessione di applicare la regola del “costruire da dietro” non sempre può avere i risultati sperati – per dirla tutta lo avevamo intuito già la passata stagione – e quella di ieri, così come quella vinta a metà o quella contro il Sassuolo dello scorso anno sono la comprova di quanto perdersi in tecnicismi e tatticismi non sia necessariamente l’unica soluzione adottabile. Movimenti macchinosi e lenti per l’appunto che perdono appeal e impatto nel momento in cui lasciano agli avversari il tempo e il modo di ri-compattarsi coprendo a dovere tutti gli spazi ma non solo, perché gli schemi di gioco nerazzurri sono diventati tanto prevedibili quanto scontati da essere letti in anticipo senza necessità di doti premonitrici alcune. Le incursioni per la maggior parte delle volte provenienti dai lati alla ricerca del guizzo o del gioco aereo senza mai pensare ad una soluzione per vie interne o lo scarico su Brozovic a cui è affidata la lucidità di trovare il varco per innescare l’azione sono tra i tanti elementi nella lista dei cliché del 4-2-3-1 Spallettiano ormai noto persino ai più disattenti.
Il risultato però nasce da un’azione che potrebbe essere rivista così come il resto del match ampiamente discusso, da un lato e dall’altro, per le decisioni arbitrali tutt’altro che esemplari. Dal pallone raccolto da fuori campo di Sepe al rigore non concesso all’Inter, passando per una possibile irregolarità sul gol, i due interventi durissimi, uno per formazione (Gagliardini e Stulac), mai fischiati nel primo tempo, passando per due falli di mano di cui uno che avrebbe dovuto strappare un pass (per i nerazzurri) per il tiro dal dischetto ma che al contrario non è stato neppure rivisto al VAR.
Oltre il danno anche la beffa perché tra gli stridi del pomeriggio di ieri pure l’infortunio di D’Ambrosio al momento meno opportuno considerate le già onerose assenze di Vrsaljko e Lautaro in vista dell’esordio in Champions di martedì. Ancora una volta Spalletti che aveva intenzione di schierare una difesa a tre di cui D’Ambrosio avrebbe dovuto farne parte, dovrà fare di necessità virtù e chissà che la cosa non porti bene proprio come contro il Bologna quando il cambio di modulo repentino fu necessario.
Egle Patanè