Il 23 maggio è, ormai, addietro di due giorni, le lancette scorrono inesorabilmente e per chi a San Siro continua ad andarci per amore, fede e attaccamento a maglia e colori, o per chi il Milan è “Un eterno amore”, la nostalgia e l’amarezza non scemano col trascorrere dei giorni; al contrario, probabilmente, si rafforzano. Perché a maggio, dopo una stagione più nera che rossa, la malinconia prende il sopravvento specie se si pensa ai tempi in cui il Milan, il grande Milan, faceva piangere ma di gioia ed entusiasmo. Maggio, mese drammatico per chi vive di ricordi. Il 23 una lacrimuccia sarà scesa sul viso di ogni rossonero, sfogliando foto e prime pagine di quotidiani stagionati tredici anni; perché da quella meravigliosa finale di Manchester, giusto per ricordarne una, sono trascorsi tredici anni e due giorni. Quella finale, per qualcuno più eminente di altre perché contro la Juve, di eroi del passato, oggi rimpianti, ne è satura. Un po’ meno colmo di eroi all’altezza, purtroppo, Milanello di oggi e non solo per qualità tecnica, piuttosto di eroicità fisica e morale. Dalle stelle d’Europa alle stalle di un misero e spettrale settimo posto, dopo un’annata tutt’altro che aurea. Gli eroi dell’epoca classica hanno tutti deposto gli elmi e l’ultimo a lasciare l’arena ha rinunciato alla sua ultima parata, con uno squarcio più sottile e profondo di una ferita da gladio e senza cantar lode alcuna.
Christian Abbiati, ultimo eroe di Manchester, ha deposto lancia e scudo al termine del campionato e dell’ennesima triste sconfitta, in casa contro la Roma, senza voler neppure giocare la sua ultima battaglia, che più di una battaglia aveva il sapore di parata d’addio. Una parata dai toni miseri e deprimenti per chi ha sfilato su tappeti satolli d’oro. Ha preferito non entrare in campo, nonostante Brocchi, ex compagno dei bei tempi, aveva riservato per lui qualche minuto di celebrazione. Ha preferito salutare così il suo pubblico, quello stesso pubblico al quale riserva parole di gratitudine e stima per non essersi mai disfatti dalle bandiere né aver disertato l’arena quando di spettacolare non è rimasto niente da vedere. Un addio cupo che echeggia la cupidigia medievale tipici di questo Milan ben lungi dalla maestosità di cui godeva un tempo. A tuonare ancora più duramente le parole di mestizia quelle rilasciate ieri da Abbiati che lasciano annusare l’afrore che si espande in casa rossonera.
“Se chiudo gli occhi e ripenso al Milan fino al 2011, vedo un’altra squadra, sotto tutti i profili. Io ragiono secondo certi valori che mi hanno trasmesso Albertini, Costacurta e Maldini…”
Parole durissime che denotano una nostalgica rimembranza dell’epicità d’un tempo tipica di un gruppo vincente le cui forze erano il risultato di sacrifici e dedizione, compattezza, grinta e lavoro duro e tenace.
“Quando ho pensato di smettere? Dopo il mio sfogo col Chievo, a metà marzo. La decisione definitiva è arrivata dopo il Bologna: avevo fatto il pieno. Vi faccio un esempio emblematico: quando Bacca fu sostituito col Carpi e lasciò il campo senza aspettare la fine e senza salutare chi entrava, nello spogliatoio lo ribaltai. Ebbene, mi sono girato e non c’è stato nessuno che mi abbia supportato. Evidentemente certe cose o non si hanno dentro, o proprio non interessano. Ai miei tempi Gattuso avrebbe tirato fuori il coltello”.
Ennesima lampadina d’allarme per i tifosi della sud che, dopo un imbarazzante settimo posto, beffe da freak show, un’Europa clamorosamente mancata, situazione economica e societaria traballante e incerta, un’ultima chance persa, vede scagliarsi contro un’acre verità che non lascia presagire nulla di buono. Cosa c’è da auspicarsi? Ora che tutti gli eroi del passato hanno calato il sipario è, forse, l’ora che anche l’ultimo eroe seduto sul trono abdichi per amore della bandiera?
Egle Patané