Ognuno di noi ha una ferita che fa fatica a rimarginarsi.
Per Roberto Baggio è quel calcio di rigore tirato e volato sopra la traversa, 26 anni fa, nella finale contro il Brasile.
Dopo più di un quarto di secolo quel tiro sfortunato, che sancì la fine di una cavalcata strepitosa per gli Azzurri e soprattutto per lui, il numero 10, rimbomba nella sua testa tanto da togliergli il sonno.
Una sensazione di amarezza, che non passa. Non passerà.
Lo ha dichiarato personalmente Baggio un anno fa, durante un evento tenutosi a Belgrado al quale l’ ex calciatore ha partecipato in qualità di promoter per un Campus calcistico, dedicato a ragazzini serbi: un’ iniziativa italiana, promossa da Banca Intesa in collaborazione con l’Istituto di assicurazione DDOR di Novi Sad.
Ventisei anni non sono bastati a cancellare quella delusione, quel capo chino e le mani sui fianchi mentre il portiere della Nazionale Verde-oro esultava per il titolo appena conquistato.
Il capo chino nonostante la consapevolezza che lui, il Divin Codino più amato dagli Italiani, si era caricato – come solo i fuoriclasse sanno fare – la sua compagine sulle spalle portandola dritta in fondo alla competizione.
Il sogno di una vita, quella di giocare una finale ai Mondiali e di giocarla proprio contro il Brasile, che si trasforma in un incubo in uno spazio lungo soltanto 11 metri.
Eroe controverso, tanto amato quanto inviso, accusato di essere primadonna più che calciatore: su Roberto Baggio tanto e troppo è stato detto o scritto, spesso con superficialità e con eccesso di giudizio.
Molti gli hanno rimproverato un senso quasi di freddezza verso le maglie indossate, un mancato attaccamento che per un tifoso è il primo requisito richiesto. Ed è vero, egli stesso ha ammesso che non ci sono state preferenze tra i club vissuti:
Sono rimasto legato a tutte le squadre in cui ho giocato. Ho avuto il privilegio di giocare in grandi club, ma in ogni squadra ho imparato molto, lottando sia per lo scudetto che per non retrocedere
Tuttavia la Nazionale, si sa, ha un sapore differente: è quel posto in cui le rivalità si annullano, gli intenti si uniscono e si va avanti verso un solo obiettivo comune.
E allora quel rigore fallito, quella rete che poteva valere una Coppa acquista una valenza amplificata, diventa un dolore sordo per un’occasione unica nella vita di un calciatore, ma non solo.
È la macchia sulla toga bianca del Cavaliere senza paura, quello che Baggio è stato per tutti noi in quell’estate del 1994: soprattutto lo è stato per se stesso.
Talvolta pensiamo che sia solo un gioco. Non lo è. Ci sono in ballo emozioni e sentimenti che non possiamo immaginare: specie quando si tratta di persone particolari come Baggio, il cui tratto essenziale resterà sempre la bellezza dei suoi piedi fatati e quella solitudine, speciale e terribile, che solo i numeri primi possono sopportare.
Daniela Russo