Igli Tare: dall’Albania ai vertici del calcio italiano, la storia del “Leone D’Oro”

Dall'Albania al Leone d'Oro, la storia di Igli Tare. DS osannato dagli addetti ai lavori ma bistrattato dalla tifoseria

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Occhi puntati su Igli Tare, il DS di casa Lazio

Nel  calcio, come nella vita, tendiamo a dare più importanza a chi vive le luci della ribalta, a chi si espone in prima persona, a chi – semplicemente – è più in vista, ignorando di fatto tutta una serie di dinamiche che si svolgono dietro le quinte, a riflettori spenti.

Il successo di una squadra viene attribuito al calciatore, all’allenatore, all’ambiente. Difficilmente si vanno a riconoscere i meriti delle tante figure che ruotano attorno al mondo del pallone e che svolgono un lavoro di programmazione fondamentale per la buona riuscita di un progetto.

I Direttori Sportivi sono l’esempio lampante di come – spesso – sottovalutiamo alcuni ruoli (seppure ai vertici dell’organigramma societario). In alcuni casi, di loro conosciamo a malapena il nome.

Non è il caso di Igli Tare, controversa figura che dal 2008 segue minuziosamente il mercato biancoceleste, raccogliendo riconoscimenti degli addetti ai lavori – ultimo, il Leone D’Oro ricevuto recentemente – senza però riuscire a far breccia nel cuore della tifoseria laziale. 

Parlarne è sempre difficile, almeno nel mondo Lazio, perché – suo malgrado – si tira dietro da sempre la scia delle contestazioni dei tifosi. Spesso immotivate, poco realistiche, nella maggioranza dei casi dettate solo dalla necessità di trovare un capro espiatorio alla propria frustrazione. 

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fonte immagine: profilo Twitter ufficiale SS Lazio

Per sintetizzare al meglio la figura di Tare, possiamo definirlo come il professionista osannato dagli addetti ai lavori ma bistrattato da buona parte dei tifosi biancocelesti.

Poco importa se è l’artefice dell’arrivo di Strakosha, Milinkovic, Correa, Luis Alberto, Immobile e – prima di loro – Candreva, Biglia, Klose ed Hernanes (per citarne solo alcuni): verrà sempre ricordato solo l’acquisto di Wallace, Novaretti, Alfaro e Garrido. 

Nessuno è perfetto, si dice. E si dice che anche i migliori, ogni tanto, sbagliano. 

È una questione di probabilità. 

Non voglio stare qui ad elencare i colpi di mercato, le plusvalenze, i numeri… è una cosa che non so fare e la lascio volentieri a chi sa farlo meglio di me.

Un’analisi velocissima – con il beneficio d’inventario – dice che, al netto di qualche errore di valutazione commesso nel corso degli anni,  Tare è il miglior DS d’Italia, che piaccia o meno. 

Da cosa deriva, allora, l’antipatia da parte dei tifosi?

Partiamo dal presupposto che il tifoso tende – spesso – a non avere una visione lucida delle cose e che, nell’immaginario collettivo, la figura di Igli Tare viene percepita come il braccio destro di Lotito. Una sorta di lacchè miracolato che non dovrebbe neppure ricoprire quel ruolo. 

La sua storia ricalca in parte quella di Simone Inzaghi; come è stato per l’allenatore, anche Tare è considerato un’invenzione di Lotito. 

Dopo tre stagioni in maglia biancoceleste, l’attaccante albanese – in aria di ritiro – viene “intercettato” dal patron biancoceleste che vede in lui il sostituto perfetto dell’uscente Sabatini.

La conoscenza del calcio esteroe di ben sei lingueconvincono Lotito a scommettere sul gigante albanese creandodi fatto e dal nullaquello che ormai da 12 anni è l’uomo-mercato di casa Lazio. Scommessa vinta, a giudicare dai risultati ottenuti in termini di prestigio e di crescita della squadra. A piccoli passi, certo. La famosa programmazione di cui parlavo in apertura. 

Il suo segreto? Una stretta rete di contatti, tra ex compagni di squadra e agenti, oltre allo studio quasi maniacale dei giocatori: c’è chi addirittura parla di 24 mesi di osservazione, per valutare se sia il caso o meno di intavolare una trattativa. 

In realtà, si parla tanto ma – di lui – si sa poco.

La riservatezza è una delle sue doti migliori, tanto che chi ha imparato a conoscerlo diffida sempre dei titoli ad effetto dei giornali durante le sessioni di calciomercato. Se è sui giornali, sicuramente non lo sta trattando. Peccato che in molti ancora ci caschino, ed è da lì che spesso nascono le incomprensioni.

Da tifosa, anche io ho impiegato del tempo per iniziare ad apprezzarlo – mi successe anche con Inzaghi, non sono ferrata con le prime impressioni, lo ammetto – ma con il tempo ho imparato ad osservare le cose da un’altra prospettiva. Aggiungo anche che, per carattere, tendo a voler guardare oltre quello che si vede e a ricercare il buono anche dove – apparentemente – non c’è. 

Dietro la facciata dell’algido DS, si nasconde una storia fatta di sogni inseguiti – e raggiunti – con sacrificio e non poca sofferenza.

Dalla fuga dall’Albania – con una valigia e il sogno della Bundesliga – fino ad arrivare ai vertici del calcio italiano.

Nulla – o poco – è stato semplice.

In mezzo ci sono anni di buio, di solitudine e di difficoltà. Non è difficile immaginare il perché sia apparentemente privo di empatia. Fa parte di quella generazione di calciatori a cui nulla era dovuto e anche tirare calci a un pallone era un lusso che non tutti potevano permettersi. 

Quello che ne è venuto fuori, leggendo le interviste che ha rilasciato negli anni, è il ritratto di un uomo – a dispetto di come molti lo dipingono – profondamente legato alla Lazio e a tutto quello che circonda quello che ormai è il suo mondo. 

Tanto da sopportare le minacce di morte ricevute – il lato peggiore del calcio – dopo la cessione di Hernanes (con il senno di poi, ha avuto ragione lui, si può dire?) e da vederla da vicino – la morte – nel 2015, a seguito di un malore dovuto allo stress.

Quello che, in un primo momento, sembrava essere solamente un principio di polmonite, come lui stesso ha raccontato alla Gazzetta dello Sport qualche tempo fa, era in realtà un’insufficienza respiratoria che lo ha costretto al ricovero in terapia intensiva. 

E se questo non fosse ancora sufficiente, sono di pochi giorni fa le dichiarazioni in cui – tra le righe e nemmeno troppo – ammette di aver rifiutato la chiamata del Milan (due anni fa ndr.) perché considera la Lazio la sua seconda casa. 

Nonostante le contestazioni, nonostante le chiacchiere e gli insulti – spesso pesanti – resta al suo posto, a difendere una società che sente sua molto più di quanto si possa immaginare. 

Una storia che forse meriterebbe una briciola in più di rispetto, quantomeno sul piano personale. 

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fonte immagine: profilo Twitter ufficiale SS Lazio

E sul piano professionale, 10 finali raggiunte in 10 anni di cui 6 vinte, la qualificazione ai gironi di  Champions (era la lacuna nel suo curriculum, colmata) e una cavalcata da scudetto fermata solo dal covid, beh, se tutto questo non viene apprezzato forse il problema non è di Tare.

 

Micaela Monterosso