Ieri a San Siro solo per la maglia e per Rodrigo

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Sì è vero, dovrei parlare di calcio, di quello giocato intendo; dovrei essere super partes. Dovrei, appunto, ma non lo sarò, non stavolta almeno. Ci continuano a ripetere che è solo un gioco e allora no, oggi non vi parlo del gioco, non vi parlo con distacco, non vi parlo di dribbling, diagonali, pressing e numeri; il buon Brera non me ne voglia, oggi parlerò di un altro calcio, di quel calcio visto dagli occhi della tifosa seduta sugli spalti, da dietro i bandieroni.
Le ore che hanno preceduto la partita di ieri sono state un continuo ripetere a me stessa “Vado? o meglio di no??”. La decisione finale saprete quale possa essere stata perché poi, alla fine, è sempre quella; perché io quella squadra la amo, perché io quello stadio lo amo e perché tre mesi senza zainetto e sciarpetta mi sembrano già infiniti.

Dalle pagine “Diario di una tifosa”…
28 maggio, Stadio Meazza come mai visto: vuoto o quasi, curva nord deserta o quasi, pochi striscioni, poco coinvolgimento, quasi la partita non la si guardava neanche. Due su cinque dei gol messi a segno dai nerazzurri non li ho neanche visti entrare (il che non sarebbe troppo strano, dalla curva capita di non riuscire a vedere con zelo tutti gli episodi di una partita ma…) stavolta non a causa della visuale coperta dai bandieroni, non perché sono un metro e tanta voglia di crescere (per la troppa folla, capita raramente di riuscire a beccare quell’angolino di porta che viene trafitta), no affatto! Ieri quei gol me li son persi perché ero distratta. Stavo girando una sigaretta di drum e parlavo con due mie amiche che son venute allo stadio; ero seduta, a gambe incrociate e gli occhi fissi sulla cartina, sintomatico di quanto di quella partita ce ne fregava veramente poco. Utilizzo il plurale perché il disinteresse era pressappoco condiviso, la curva era il ritrovo di quei pochi che l’Inter in fondo non la lasciano mai ma che ieri erano lì più per dare l’arrivederci a San Siro come luogo di culto che alla squadra. Pochi cori, pochi e cantati senza troppa enfasi, solo uno largamente condiviso e urlato a squarcia gola risuonava in tutto lo stadio: “Solo per la maglia, siam presenti solo per la maglia” e, ogni tanto, volava qualche insulto ai giocatori; “indegni”, “andate a lavorare”, “giocate senza maglia”. Giocare senza maglia, ecco cosa avrebbero dovuto fare, giocare senza portare stemma e bandiera addosso perché, tanto, loro quella bandiera e quello stemma li hanno infangati, deturpati e disonorati come mai nessuno. Qualcuno penserà che la nord sia stata troppo dura nel fischiare Candreva, nell’aver riempito di insulti Brozovic dopo aver segnato, nel non aver esultato dopo i gol e per non aver neanche una volta cantato “Forza ragazzi” come solito fare. Beh, questo qualcuno sarà libero di pensare ciò che vuole ma, se questo qualcuno dovesse esistere davvero e pensando una cosa simile, sarebbe per forza di cose un calciologo (dubbio tra l’altro) ma non un amante del calcio. I cori non recitano mai false o mezze verità, “passeranno i giocatori, le annate e le società noi siam sempre qua” recita un coro della nord, non è forse vero? Non è forse vero, in un’epoca in cui le bandiere sono solo un ricordo da libri di storia, che gli unici a sputare sangue per la maglia e per i colori sono proprio i tifosi che, nonostante sconfitte assurde e clamorose sono lì, domenica per domenica, con zaino e striscioni, a San Siro o in trasferta, a cantare e saltare come se fosse il primo giorno? Non è forse vero che l’Inter appartiene più a loro che a Suning?
Beh, la partita di ieri fa incazzare e pure parecchio, Eder che segna una doppietta con facilità, Perisic che fa tutto (o quasi) perfettamente, c’è il pressing, ci sono cross fatti bene, si vedono addirittura anticipi e tunnel; ieri l’Inter ha dato spettacolo e se non fosse stata la gara numero 38, se non fosse stata l’ultima di un’annata da schifo l’avremmo definita una partita giocata con cuore e anima ma no, cuore e anima questi giocatori non ne hanno messo neppure un pochetto, né ieri, né mai. La partita di ieri è stata semplicemente giocata con piedi, muscoli e testa e allora, sorge spontaneo chiedersi, piedi, muscoli e testa li hanno ritrovati a due giornate dalla fine? Perché, se sono stati in grado di fare una partita esemplare all’Olimpico e una altrettanto bella contro l’Udinese, non sono riusciti a farlo prima? Perché non hanno voluto! E allora beh, questi calciatori non hanno mai messo neppure un pochetto né di cuore né di anima. Non fa bene, quindi, la curva nord a continuare a ripetergli “non siete degni”? Rispondessero loro. Rispondesse un Marcelo Brozovic che dall’alto del suo attico pubblicava storie instagram mentre la squadra aveva appena preso gol al 97’ durante il derby. Rispondesse lui come tanti altri, tutti, nessuno escluso. Cinque gol. Hanno segnato più gol nella partita di ieri che in tutta la stagione e hanno pure il coraggio di esultare.
Ma la cosa che fa più incazzare è un’altra, ieri giocava la sua ultima partita un tale di nome Rodrigo Palacio, un tale che, al contrario di un qualunque Marcelo Brozovic (è lui il capro espiatorio perché in lui, personalmente, avevo creduto pure fin troppo rispetto a quanto meritasse e quindi concedetemi di riversare un po’ di sincera frustrazione) ha sempre lottato rendendo onore alla maglia che ha indossato, a testa bassa, con rispetto e umiltà senza mai chiedere nulla in cambio. L’attaccante argentino che, dopo Milito, dal Genoa approdava a Milano, l’attaccante difficile da etichettare, quello che il reparto offensivo lo faceva suo senza preoccuparsi di occupare la corsia destra o sinistra, di essere seconda o prima punta, il giocatore tanto duttile da diventare addirittura portiere come nei cartoni animati; un po’ come in Holly e Benji quando Benji dai pali riusciva a segnare ma qui, al contrario, era l’attaccante che indossava i guantoni e si posizionava tra i pali per stupire anche in quel ruolo; e allora, come dimenticare quell’Inter-Verona in cui “Rodrigol” diventò “Paracio”?! Ci sono aneddoti che non si possono cancellare o dimenticare come quell’aggancio perfetto da centrocampo e il gol da fuori area contro il Bologna, la doppietta che valse la rimonta a Catania, il gol di tacco al derby, quella “trenza” scodinzolante che non si fermava mai, quel piccolo ma irrefrenabile numero 8 che da centrocampo scattava, saltava l’uomo, rientrava, attraversava l’area o serviva i compagni; soprattutto serviva i compagni. Lo spirito di sacrificio e l’altruismo lo hanno sempre contraddistinto e persino ieri, sopra di quattro gol in una partita che contava meno di nulla, lui era lì a rincorrere ogni singolo pallone senza sprecare nulla, ad evitare falli laterali e sprechi, a fare da sponda senza mai pensare a se stesso neanche ieri, che l’ultimo gol avrebbe voluto segnarlo (maledetto palo) e noi avremmo voluto vederglielo segnare solo per urlare ancora una volta, per l’ultima volta, quel Rodrigo Palacio scandito come solo dopo un gol si fa, lui serviva i compagni mettendo la squadra al primo posto come sempre fatto.
A fine partita, con le lacrime, si è avvicinato alla curva, ha alzato le mani al cielo e ha applaudito finchè non è uscito dal campo, ha ringraziato la sua sua gente, la stessa che gli ha ricambiato affetto dal primo giorno e lo ha applaudito senza mezzi termini persino dopo quel tiro dal dischetto finito sulla traversa, un errore che è valso una qualificazione mancata in finale di Coppa lo scorso anno.
E allora sì, la cosa che più fa incazzare è proprio questa, ieri Rodrigo Palacio, l’uomo che non mollava mai neanche e soprattutto nei momenti di difficoltà, ha calpestato per l’ultima volta il prato del Meazza e non ha avuto la standig ovation che meritava, non ha avuto il saluto che avrebbe dovuto avere perché la stessa squadra che ha amato incondizionatamente pur non avendogli mai regalato la gioia di sollevare trofei, ha mollato ancor prima di iniziare, togliendogli l’ultimo piacere in maglia nerazzurra, togliendo a lui il piacere di un inchino di fronte ad uno stadio sold out che urlava il suo nome.
Ieri ho assistito ad un fallimento dal quale il calcio stavolta non è riuscito a salvarsi, un fallimento morale che dobbiamo a quei mezzi uomini che indossano quella maglia, a quegli stessi che pretendono stipendi più alti, che trovano il coraggio di dire “Vado via perché voglio giocare la Champions” ma non hanno mai corso per andare a prendersela, gli stessi che non hanno idea di cosa significhi lottare per la maglia e che si muovono soltanto grazie a leggi fisiche dettate dal dio denaro ma, per fortuna l’Inter, come lo striscione recita, SIAMO NOI e allora, caro Rodrigo perdonaci se non siamo stati all’altezza, perdonaci del saluto mancato, perdona tutti coloro che ieri non si sono sentiti di venire ad omaggiarti, perdonali perché hanno subito il peso della delusione e della frustrazione e non tutti riusciamo ad essere il trenza, talvolta anche noi molliamo; che possa essere da insegnamento per i giocatori di oggi e di domani, un altro Rodrigo Palacio non ci sarà ma, mi auguro possano prendere esempio dal grande uomo, oltre che calciatore, che sei stato e che sei.
Immensamente grazie, una tifosa interista.
Egle Patanè