Essere donna in Iran: la ricerca di libertà riguarda anche il calcio

Mentre imperversano le proteste, si guarda con speranza a un mondo dove le donne iraniane possano seguire, tifare e giocare a calcio

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Fonte immagine: profilo ufficiale twitter @MediasetTgcom24 https://twitter.com/MediasetTgcom24/status/1174644381732786176/photo/1

Donna, Vita, Libertà”  

Tre parole semplicissime, che noi, cittadini del moderno occidente, siamo abituati a sentire, come un effetto della globalizzazione e del nostro mondo, fatto di benessere e di libertà. Andare allo stadio, tifare liberamente la nostra squadra del cuore, o anche la nostra Nazionale, sembrano per noi le cose più normali al mondo. 

Dirigerci con la sciarpa dei nostri colori allo stadio, tifare insieme, sentirci libere di poter esprimere tutta la nostra creatività e la nostra passione.

Sembra così facile, eppure, se ci fermassimo a pensare un attimo alla nostra grande fortuna, ci renderemo conto che nel mondo non è sempre così.

Assurdo, vero? 

Eppure, è quello che da più di un mese, le donne iraniane combattono. Nel nostro piccolo, anche noi, vorremmo testimoniare la nostra vicinanza ad un popolo fiero, orgoglioso, e stanco di vivere sotto a una legislazione, che non permette il più importante fondamento dell’umanità: la libertà

È ormai nota la tragica fine di Masha Amini, giovane iraniana di appena 22 anni, morta in seguito alle violenze perpetrate da parte di una cosiddetta “polizia morale”, per non aver indossato correttamente il velo, simbolo della religione islamica.

O della giovanissima, Hadis Najafi, uccisa per essersi tolta il velo e aver raccolto i capelli in una coda.

Ciò che sta accadendo, non riguarda in alcun modo la religione, dove tra l’altro, è la donna a scegliere se indossare, o no, il velo. Ma questo non basta, in un paese dove, persino il calcio, noto come sport d’aggregazione, viene visto come un qualcosa vietato alle donne. 

La storia di Masha e di Hadis sono due fra un migliaio, di quelle di donne, bambine e giovanissime, che ogni giorno, con audacia e coraggio, cercano di darsi giustizia.

La condizione della donna è un qualcosa che fa rabbrividire, visto che per loro è impossibile anche svolgere quelle attività, che per noi risultano normali.  

Una protesta, incessante, che ha raggiunto anche la Nazionale maschile di calcio.

Nella partita amichevole contro il Senegal, del 27 settembre, i giocatori al momento dell’inno nazionale hanno indossato dei giubbini neri, in segno vivo di protesta contro il governo.

A far risuonare il suo pieno sostegno e a spiegare il gesto, era stato sui social, Sardar Azmoun. L’attaccante, di proprietà del Bayer Leverkusen, aveva scritto:  

Non posso più tacere […] La punizione è l’espulsione dalla nazionale? Cacciatemi. Se servirà a salvare anche una sola ciocca di capelli delle donne iraniane ne sarà valsa la pena.” 

Parole dure, degne di un figlio di una terra martoriata, e che precedono anche la notizia che negli ultimi giorni, è stata trapelata dalla BBC. 

Alcuni calciatori della Nazionale iraniana avrebbero chiesto alla FIFA, l’esclusione della nazionale dal mondiale che fra poco inizierà in Qatar, dove dovrebbe giocare nel Girone B, con Inghilterra, Stati Uniti, e Galles.

Richiesta di esclusione, che arriva nelle stesse ore, della lettera di Paolo Zampelli, ambasciatore delle Nazioni Unite, rivolta al presidente Infantino. Non è ancora stato possibile confermare la veridicità, sebbene possa, nel piccolo, rappresentare un piccolo passo di distanziamento da ciò che si sta accadendo nel paese. 

Aveva fatto ben sperare, il ritorno delle donne allo stadio, nel mese di agosto, dopo 40 anni dall’inizio del Rivoluzione Islamica nel 1979 e dopo gli eventi del 2019. 500 donne ad assistere alla partita dell’Estaghlal, squadra di Teheran, sedute sugli spalti, con le sciarpe e i vessilli della squadra bianca e blu.

Potrebbe sembrare un passo importante, se non tenessimo conto del fatto che erano divise dagli uomini.

Non vi è un divieto ufficiale, ma viene vietato loro l’ingresso. Nel 2018 dieci donne furono arrestate, mentre altre riuscirono ad entrare indossando, barbe e parrucche finte.

Una di loro, era Sahar Khodayari, che nel marzo del 2019, tifosissima della squadra locale di Teheran, decise di andare allo stadio.

Quello che ne segue, è soltanto una delle più brutte pagine della storia. Dopo tre giorni in carcere, nel settembre del 2019, venne invitata a presentarsi davanti alla Corte Rivoluzionaria, dove sebbene non venne proclamato alcun verdetto, fu condannata a sei mesi di prigione. Uscita dal tribunale, Sahar, si sparse con la benzina, e si diede fuoco lì, fuori dal tribunale.

Storie di tragedie, storie di donne coraggiose. Sembra strano addirittura leggerle, visto che per noi è quasi imprescindibile, essere libere di poter andare allo stadio.

Una vicenda che merita, vivamente, la pena di essere raccontata, è quella di Sanam Shirvani. Nata nel 1986, a Rasht, nel nord dell’Iran, ha una passione, oltre al sogno di diventare un architetto: il calcio. Uno sport, che come lei stessa ribadisce, non è accettato per le donne: 

“Sono cresciuta in una famiglia dove sono tutti appassionati, i miei due fratelli più grandi giocavano in una squadra, e io volevo essere come loro, attaccante. Ma in Iran, il calcio è un tabù.” 

Dopo essersi trasferita nel nostro paese, a Torino, nel 2013, e dopo essersi laureata ha deciso di coltivare un sogno: quello di fare un corso da arbitro.

Un mondo nuovo, diverso, che le ha permesso di sentirsi, forse per la prima volta, fiera di aver scelto la sua libertà, a discapito della lontananza da casa.  

Storie normali, storie di donne e di ragazze che sognano un futuro diverso. Storie di un popolo, stanco dei continui soprusi e della mancanza di libertà.

Un popolo a cui va tutto il nostro supporto, perché se manca la libertà, non vi è umanità. E senza umanità, la partita più importante, è già persa a tavolino.  

 

Rosaria Picale