In questi giorni dominati dalle tante polemiche per l’operazione Ronaldo, che ha ha sancito ancora una volta quanto il calcio ormai sia valletto del marketing e del potere, abbiamo intervistato un uomo, prima ancora che uno sportivo, che vuol farci ricordare di come il pallone può portare ancora un barlume di speranza e di sogni a chi è più in difficoltà. Che si può essere sportivi anche quando vieni già dato per spacciato, quando per tanti la tua vita è finita prima ancora di iniziare a sognare.
Antonio Genovese dalla sua carrozzina ha voluto infrangere tutti i tabù, dimostrando che il calcio è SOLO di chi lo ama.
Costretto su una sedia a rotelle dall’età di 14 anni, non ha mai smesso di sognare e in più di 20 anni di esperienza nel calcio è riuscito a togliersi tante soddisfazioni e, cosa più importante, a infrangere le barriere.
Nato e cresciuto a Milano, come molti ragazzini trascorreva i pomeriggi a giocare a calcio. Nell’agosto del 1991, al ritorno dalle vacanze estive, un incidente stradale gli cambia la vita: resta paralizzato agli arti inferiori. Antonio, però non si scoraggia e trova dentro di sé la forza di coltivare e realizzare il sogno di diventare un allenatore di calcio.
Ciao Antonio, raccontaci la tua storia…
Ho iniziato a lavorare come allenatore a livello amatoriale perché non sapevo che c’era la possibilità per un disabile di prendere un patentino da allenatore perché mi è sempre stato detto che questo non era possibile per chi è in carrozzina.
Nel 2010 ho scoperto che la UEFA B aveva due posti per disabili e quindi ho mandato i documenti che sono stati accettati e così ho fatto il corso a Milano. Ho iniziato dalla 3° categoria maschile per poi passare alla categoria femminile.
Ho fatto un’esperienza per due anni alla RES Roma come collaboratore tecnico e a volte vice di Mister Minillo, anche se il mio vero lavoro era quello di osservare e studiare gli avversari. Ho voluto poi lasciare la squadra perché volevo stare di più sul campo e così sono approdato a Napoli alla Domina Neapolis, che mi rimarrà sempre nel cuore. Sono rimasto in ottimi rapporti con dirigenti e giocatori che ancora oggi mi chiedono consigli.
Sono andato poi a Trani ma sono rimasto poco tempo per divergenze con lo staff tecnico e ho chiesto di andare via nonostante il buon rapporto con le ragazze e il presidente Scarcella.
Da un anno collaboro anche con l’Osa Seattle, squadra americana femminile, che avrei dovuto raggiungere, ma ho rinunciato per dedicarmi al corso da allenatore UEFA A a Coverciano, per il quale devo dare ancora l’esame e se tutto andrà bene sarò il primo allenatore professionista disabile in Italia.
Sappiamo che sei stato nello staff dell’Inter…
Ho fatto l’osservatore per i nerazzurri per 10 anni per il settore giovanile. Quando mi è stata offerta questa opportunità, mi è sembrato di poter continuare quello che si è interrotto con l’incidente, far parte di una grande squadra e di una importante società. La mia esperienza è durata fino al 2006 e ricordo che già allora veniva applicato il controllo delle pagelle dei ragazzi che spesso erano iscritti a scuole private, in modo da poter controllare il loro comportamento al di fuori dell’ambito calcistico. Se il ragazzo non andava bene a scuola si allenava lo stesso ma senza giocare la partita fino a quando non migliorava. In questi casi tutti i ragazzi che non avevano un buon rendimento scolastico, il trimestre successivo avevano recuperato perché la voglia di giocare e di far bene in una grande squadra era molto forte. Ho conosciuto persone molto valide come Gianluca Andressi, tecnico che ha lasciato la società con me.
Ringrazierò sempre il presidente Moratti per gli anni passati insieme e per la bellissima esperienza che mi porterò sempre nel cuore.
Come è entrato il calcio femminile nella tua vita?
Per caso, conoscevo da tempo una ragazza che giocava a pallone, ma non me l’aveva detto, me ne sono accorto da una sua foto con la maglia del Milan. Sono andato a vederla e da allora mi sono appassionato al calcio femminile che è completamente diverso da quello che si dice: “palla lunga e pedalare e contropiedi e basta”. È un calcio del tutto simile a quello maschile, con le dovute differenze.
Ho avuto il piacere di conoscere la Presidentessa Cordani della Lazio femminile e mi sono appassionato alla sua squadra, gestita con una passione che mi ha fatto capire cosa sia la Lazialità, nonostante io sia milanista nel maschile.
Ho trovato nel calcio femminile più interesse verso gli esercizi fatti in allenamento, vengono fatte domande sul perché vengono fatti determinati esercizi e a cosa servono rispetto a un ragazzo che fa quello che gli viene detto e basta, senza porsi domande.
Purtroppo mancano investimenti e sponsor verso il calcio femminile, anche se grazie a Juventus, Milan e Roma, che hanno lanciato il settore femminile, questo settore avrà molta più visibilità e importanza.
Com’è stato l’approccio di calciatori e calciatrici con un allenatore disabile?
Ho iniziato nel femminile con le giovanissime dell’Inter dove credevo fosse più difficile l’approccio con una carrozzina rispetto alle adulte che capiscono certe dinamiche della vita, invece sono stato accolto come un amico, poi però ho dovuto far capire alle ragazze che non ero un amico ma l’allenatore e che dovevano ascoltare quello che le dicevo. Erano ragazze davvero brave ed è andato tutto bene e con molte di loro ho ancora rapporti, ci si sente per dei consigli.
Io ho sempre fatto quello che fa un mister “normodotato”, arrivavo prima agli allenamenti e preparavo il campo per l’allenamento con l’aiuto dei miei collaboratori.
Ho avuto invece problemi a livello amatoriale maschile dove molti si sentivano dei fenomeni e si dimenticavano che il calcio amatoriale si pratica per divertirsi e certe scelte non venivano accettate, veniva etichettata la carrozzina.
Il messaggio che vuoi lanciare ai giovani disabili?
Ho deciso di aprire anche una fanpage per parlare di questo, per portare la mia esperienza e i miei pensieri e far capire che “si può fare”:
https://www.facebook.com/MrAGenovese/
Ho migliaia di iscritti e mi fa molto piacere.
Il messaggio che voglio lanciare ai giovani disabili è quello di non arrendersi e di inseguire i propri sogni. Non bisogna mai essere spettatori passivi della nostra vita ma esserne i protagonisti, dare e fare il massimo.
Secondo te quanto è importante lo sport per un disabile?
È molto importante, ma l’errore che fanno molti disabili è quello di stare con altri disabili, secondo me bisogna stare tutti insieme, normodotati e disabili, a parte nel praticare sport dove i disabili lo fanno con altri disabili ma il contesto di aggregazione è molto importante. Ci sono sport molto belli e divertenti come il basket in carrozzina o l’hokey su ghiaccio, ma non fanno vedere le partite oppure le fanno in orari che non permettono a tutti di poterle seguire. A differenza delle Olimpiadi che vengono date tutte in diretta, le para Olimpiadi vengono fatte vedere dopo, in tarda notte.
Di sportivi disabili conosciamo solo Alex Zanardi e Bebe Vio, ma ce ne sono tanti bravi che meriterebbero attenzione che invece non viene data.
Praticare sport per un disabile è molto importante, soprattutto a livello fisico, perché ti aiuta a risvegliare dei movimenti che non faresti normalmente, nella vita di tutti i giorni.
Pensi che l’Italia debba fare ancora tanto per i disabili che vogliono praticare uno sport?
Nel nostro paese ci sono ancora molte barriere, più mentali che architettoniche. Dobbiamo dimostrare a noi stessi che chi ama il calcio può fare tutto.
All’estero i disabili hanno molte possibilità anche a livello lavorativo, mentre da noi questo non viene fatto, nonostante la legge lo preveda.
In Italia non si fa pubblicità sullo sport per disabili ed è un peccato perché chi ha la mobilità ridotta non viene a conoscenza di quello che potrebbe fare.
In America per esempio ci sono tantissimi sport e tutti hanno una visibilità enorme, vengono fatti gli stessi investimenti per tutti, mentre in Italia esiste solo il calcio. Gli altri sport vengono visti solo durante i giochi olimpici ma nessuno sa dove e quando si allenano. Ci vuole una cultura sportiva diversa, dobbiamo prendere esempio dagli altri paesi e crescere ancora molto.
Ci vuoi raccontare qualche aneddoto particolare?
Mi è capitata una cosa molto antipatica qualche anno fa, quando andai a fare un colloquio calcistico e nel momento in cui mi presentavo, vedevo alcuni giocatori, i dirigenti e i segretari parlare tra di loro e dire “non verrà mica ad allenarci un handicappato?”, queste sono le barriere mentali.
Non puoi farmi mille elogi e quando si libera la panchina chiamare altre persone che non hanno neanche l’esperienza necessaria.
Un’altra cosa che mi ricordo è l’ultima partita giocata dalla Res Roma contro il Mozzanica, con la vittoria che ci ha permesso di salvarci. Al termine della partita dopo i festeggiamenti sul campo si è deciso di ringraziare tutti i componenti della squadra davanti ai tifosi con la maglia celebrativa con la scritta “Res-Ti-amo-Ancora”. È stato bellissimo e non lo dimenticherò mai.
Parlaci del tuo libro.
Il libro racconta la mia storia da prima che iniziassi a giocare a pallone, di com’ero prima dell’incidente e di come ho accettato la mia nuova condizione e nuova vita, a ricominciare da zero in una vita diversa ma bella e che dà tante soddisfazioni.
Ho deciso di scrivere questo libro per dare la possibilità a tutti di conoscere la mia storia ma soprattutto per far capire a chi non è normodotato e sogna questo lavoro che si può fare!
Se volete acquistare il libro di Mister Genovese, lo potete trovare qui:
Barbara Roviello Ghiringhelli