Abbiamo più volte sottolineato e gioito per i passi avati effettuati dal calcio femminile italiano; un movimento che in un sistema considerato ancora troppo appannaggio degli uomini, a piccoli passi sta iniziando a farsi luce…
a piccoli passi…
perchè il problema non è solo il sistema calcio bensì un arretratezza culturale tutta italiana…
Le atlete italiane che fanno dello sport il loro «lavoro» sono costrette a gareggiare da dilettanti, senza eccezioni, perché nessuna federazione permette loro di accedere all’attività professionistica.
Una legge del 1981 esclude le donne dal professionismo
Questo vale anche per le varie Federica Pellegrini e Tania Cagnotto ma anche per Gama, Bonansea, Girelli e le altre Azzurre che parteciperanno al Mondiale francese. Anche le calciatrici infatti sono dilettanti e non professioniste sotto il profilo dell’inquadramento giuridico e questo comporta:
Non poter essere assistite da un procuratore sportivo
Una calciatrice, in Italia, non può essere assistita da un procuratore sportivo a causa delle norme federali. Non si può parlare neppure di assistenza contrattuale, dato che le calciatrici percepiscono un rimborso spese e non uno stipendio.
Stipendi bassi
Lo ‘stipendio’ più consistente di una giocatrice di calcio si aggira intorno ai seimila euro al mese, ben poca cosa rispetto agli ingaggi milionari dei calciatori.
Le sportive italiane in media guadagnano il 30% dei loro equivalenti maschi.
Nessuna garanzia
Il riconoscimento di professionismo permetterebbe di ottenere almeno alcune garanzie previste dagli inquadramenti contrattuali. Essere professioniste permette di accedere alle garanzie previdenziali, sanitarie, contrattuali previste per i lavoratori del settore. Compreso il tfr a fine contratto.
Per le donne, in Italia non è così…
Caterina Autiero