L’altro giorno, leggendo il divertente e graduale acclimatamento di Tim Parks tra le fila dei tifosi del calcio italiano, descritto nel suo libro “Questa pazza fede”, mi sono ritrovata a pensare al concetto di aggregazione.
Lo stadio è, per sua natura, collettivo: un calderone palpitante di allegria, impazienza, lacrime, esultanza, nervosismo moltiplicato all’infinito, assolutamente in contrapposizione all’individualismo.
Il tifo non è una faccenda solitaria; viene costruito e sostenuto dall’insieme, più o meno nutrito, dei tifosi. E’ questo è assodato.
E caso vuole mi sono imbattuta in un altro esempio di aggregazione calcistica: il cortile.
Ho avuto la fortuna di poter incontrare Diego Fuser, tra i migliori centrocampisti italiani degli ultimi decenni, poliedrico calciatore del Torino, Milan, Fiorentina, Lazio, Parma e Roma nonché della Nazionale italiana, in grado all’occorrenza di trasformarsi in esterno o trequartista e segnare reti (molte).
Con la maglia rossonera, Fuser ha vinto una Coppa dei Campioni (1990), 1 Scudetto nella stagione 1991 -92; con i biancocelesti ha vinto la Coppa Italia nel 1998, con il Parma una Coppa Uefa nel 1999.
(Immagini tratte da Wikipedia, lagazzetta.com, getty)
Torniamo al cortile.
Erano gli anni Settanta e Diego, scolaretto delle elementari a Venaria, provincia di Torino, si stava perdutamente innamorando del calcio rincorrendo palloni di fortuna nei cortili, insieme agli amici.
“A quei tempi non c’erano i Social, non c’erano i video giochi e ci si divertiva giocando a calcio” mi spiega. Bene o male tutti sognavano, anche utilizzando regole rudimentali e un terreno di gioco improprio, di ripetere le gesta esaltanti dei Campioni di allora, quelli che i papà seguivano religiosamente la domenica nelle radiocronache, con buona pace di tutta la famiglia.
“La mia era una famiglia Juventina – ricorda Diego – e ogni tanto andavo allo stadio a seguire le gesta del mio calciatore preferito, Tardelli, campione del mondo con la Nazionale italiana nel 1982 e cinque volte Campione d’Italia con la Juventus“.
Per esperienza so che non c’è storia nella quale non si intrecciano altre storie. Così anche nel calcio, dove i campioni ne ispirano altri in una sorta di passaggio di testimone, anzi di pallone; e se Fuser ammirava Tardelli, Tardelli aveva come idolo Gigi Riva, il Rombo di Tuono del calcio italiano, e via di questo passo.
Il piccolo Diego inizia a scaldare i muscoli nel Venaria, a dieci anni. Da lì approda al Torino da Mini-esordiente, poi alla Primavera e, finalmente, alla Prima Squadra.
“Ho esordito nel maggio del 1989, con il Derby contro la Juventus, entrando dal 1° minuto del Secondo Tempo. Ero un ragazzino di 19 anni, e gli occhi puntati addosso dei 50.000 spettatori allo stadio li ho sentiti eccome. Il calcio è una passione infinita, un gioco, finché non arrivi in Serie A e alla passione e al gioco si unisce la pressione di dover ottenere un risultato, l’ansia del giudizio dei tecnici e di quello dei tifosi che magari ad inizio carriera a volte mettono in dubbio le tue potenzialità e fanno crescere le insicurezze. Per questo bisogna essere ben saldi, decisi”.
Il calcio è fatto anche, e soprattutto, di memoria (io rimango sempre sbalordita di fronte agli amici che citano per filo e per segno ogni dettaglio di ogni partita di ogni stagione di ogni decennio della propria squadra del cuore… chapeau).
E tra i ricordi calcistici sicuramente più emozionanti della lunga carriera di Diego, cristallizzata nella mente la partita Lazio-Milan del 1998: “In quell’occasione ho avuto la fortuna di alzare la Coppa Italia da capitano. Sembrava una partita persa ma poi recuperammo. Al fischio finale ci fu il boato del pubblico…”.
E in mezzo al boato, l’inno urlato con voce rotta, quel remake della sigla di Ufo Robot riservato a Fuser:
“Ma chi è? Ma chi è? Diego Fuser! Diego Fuser! Si trasforma in un razzo missile…”.
Razzi missili lo sono anche le automobiline radiocomandate che sfrecciano sulla pista-autodromo realizzata da Diego (con alcuni amici) a Castelnuovo Calcea, in provincia di Asti; un campo da calcio dismesso è tornato così a rivivere, recuperando non solo l’area che era in pessime condizioni ma anche un’altra delle sue passioni d’infanzia.
Prima di salutarci, chiedo a Diego un consiglio per un tifoso: “Quello di vivere il calcio con passione ma senza perdere la testa. Con l’approccio che hanno le famiglie quando vanno allo stadio: fare festa, gioire con i bambini, se la propria squadra vince, trovare un compromesso comunque se la squadra perde”.
E qui ritorna il discorso iniziale, quello del tifo costruito insieme, come si costruisce la famiglia…
Silvia Sanmory