Davide Santon e il suo addio al calcio giocato: vittorie, rammarichi e consapevolezze

Sono costretto a smettere di giocare. Il mio corpo non ce la fa più. Sono costretto a farlo. Non voglio, ma devo”

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Se è vero che “Il calcio è strano”, la carriera di un calciatore può esserlo ancora di più. In un secondo ti ritrovi a realizzare un sogno e l’attimo dopo lo vedi sfumare sotto i tuoi occhi. È un po’ questa la storia di Davide Santon.

Per diverso tempo in molti si sono domandati che fine avesse fatto il “bambino prodigio” di José Mourinho. Dopo varie ipotesi e talvolta accuse pesanti, la risposta è arrivata dal diretto interessato:

Sono costretto a smettere di giocare. Non per non aver avuto offerte, non per altro, ma perché il mio corpo, con tanti infortuni avuti in passato, non ce la fa più. Sono costretto a farlo. Non voglio, ma devo”.

Un sogno, appunto, che inizia presto e finisce altrettanto presto: esordisce in Serie A nell’Inter dello Special One a soli 18 nella sfida ai quarti di Coppa Italia contro la Roma. Mourinho intuisce da subito l’ottimo potenziale e gli dà la possibilità di dimostrarlo sul grande palcoscenico della Champions League. Parte perciò titolare contro il Manchester United e proprio in quell’occasione dà filo da torcere a Cristiano Ronaldo che non riesce a sfondare la porta nerazzurra e la partita si chiude sullo 0-0.

Finisce così tra i dieci giovani più promettenti del panorama continentale. Conquista lo scudetto nella sua prima stagione in nerazzurro e in quella seguente è tra i campioni del Triplete. Detta così sembra la situazione ideale per un giovane esordiente. Ma non è tutto oro quello che luccica, e Davide già dalle prima partite nel suo secondo anno all’Inter non riesce a trovare spazio. A penalizzarlo è un infortunio rimediato con la nazionale Under-21, ad oggi tra suoi più grandi rammarichi:

Quando avevo 18 anni mi sono fatto male perché mi hanno fatto un’entrata. Sentii che il ginocchio si era rotto, mi faceva male: a fine primo tempo sono entrato negli spogliatoi, lo sentivo male, il secondo allenatore mi disse “abbiamo bisogno di te, tieni botta”.

“Decisi di non mollare. Giocai tutto il secondo tempo col ginocchio rotto e lo sfondai. Da una fratturina diventò una fratturona. Invece di fermarmi, di ascoltare il corpo, decisi di andare avanti”.

E adesso, invece, il momento di ascoltare il proprio corpo è arrivato. La mentalità del ragazzo che dà tutto per scendere in campo ora lascia spazio a quella dell’adulto che non vuole fare scelte azzardate:

L’unica cosa sarebbe rischiare di avere delle protesi. Ancora riesco a camminare sulle mie gambe ma per fare il giocatore professionista serve altro. Ho il ginocchio sinistro dove non mi sono operato che però è andato. Mi impedisce tante cose… E poi c’è il famoso ginocchio destro: mi sono operato tre volte. Cartilagine, tolto tutto il menisco esterno ma appena faccio un minimo sforzo, si gonfia e non si piega più. In automatico tutti i miei infortuni al flessore partono da lì. In Serie A devi spingere, il ginocchio destro non si piega, sforzavo la gamba sinistra e il flessore è… Andato. Ogni minimo sforzo c’è sempre da stirarsi, da star fermi. Giochi una gara, ne stai fuori cinque”.

Quel che siamo è in gran parte frutto delle scelte che facciamo. E questo Davide probabilmente l’ha capito. Quel che ha capito meno è cosa il destino avrà in serbo per lui d’ora in poi:

Non lo so. Il calcio è diventato un mondo dove non c’è l’amore con cui sono cresciuto. Avevo Moratti come Presidente, era come un papà, dimostrava affetto ai giocatori. Ora è business, ti usano, ti scaricano e ne prendono un altro. Non so se mi appartenga ancora o no… La cosa che mi piacerebbe fare è allenare in un settore giovanile oppure… Ci devo pensare. Ma non so se continuare in questo mondo oppure no, magari anche il commentatore. Devi avere lo stimolo dentro, ti deve partire la scintilla giusta in quello che fai e lì deciderò bene cosa fare, con amore e voglia”.

Se è vero che la sua storia con il calcio non ha avuto il finale sperato è anche vero, però, che si è sempre in tempo per scriverne di nuove.

Romina Sorbelli