14 Maggio 2019
Chissà perché gli addii dolorosi in casa Roma
arrivano in un mese considerato di rinascita
Due anni fa quello di Totti, straziante e terribile: un addio a cui ancora si fa fatica ad abituarsi, ma mitigato dalla sua presenza nella dirigenza giallorossa che se non altro sembra farlo sentire meno distante.
Qualche giorno fa la notizia che mette fine alla carriera di un altro “figlio di Roma”.
Bordate, una punta d’ironia e addirittura qualche sorriso a cancellare la malinconia del messaggio di addio che stava portando in conferenza stampa. Un eloquio fine, composto ed infine gli occhi, quegli occhi che stavano dicendo tutto il contrario di quello che per convenzione la bocca era obbligata ad esporre.
“- IO? Io vojo rimané, la Roma è casa mia, questi me stanno a caccià ! Sono costretto a dirvi ADDIO”… “Io, uno come me l’avrei tenuto”.
In mezz’ora di conferenza stampa sono riuscita a sentire questo: il grido disperato di chi sente strapparsi il cuore dal petto, di chi dice che “l’azienda prende le decisioni, su chi gioca, chi non gioca, chi resta e chi va via”.
L’Azienda, non la famiglia Roma.
Una mesta rassegnazione che ha invaso tutta Trigoria, dove anche i ragazzi che quotidianamente ci lavorano hanno dovuto mostrare, dove dietro la professionalità di circostanza esistono sentimenti e parole che devono essere taciuti, dove le lacrime vengono nascoste dai sorrisi.
Una volta le bandiere rappresentavano il simbolo di una squadra, il distintivo ed il vanto di cui un tifoso amava fregiarsi, quel “quid” in più che valeva più di una coppa: l’uomo di cui andare fieri, quello che nasceva nella tua squadra e moriva con i suoi colori.
C’era rispetto per questa forma di devozione, un tacito accordo di cavalleria che andava oltre i fini commerciali, politici o economici esistevano valori che non potevano essere toccati, nemmeno sfiorati.
Risale solo a qualche anno fa l’estremo disappunto che si provò per il modo con cui Del Piero venne scaricato dalla Juventus.
Tristezza ed incredulità, una forte delusione verso una società che sembrava aver tradito il suo “idolo” ed il suo popolo, un atteggiamento che in realtà ancora brucia e che venne aspramente criticato.
Oggi è sempre più palese che anche i sentimenti nel calcio devono essere misurati, sia da una parte che dall’altra. Che la riconoscenza è effimera e non può appartenere a tutti.
Così dopo l’addio enunciato pubblicamente, arriva lo sfogo privato, senza filtri ma pur sempre in linea con lo stile De Rossi, la delusione e l’emozione nello spiegare, nel rendere figurabile un evento così incredibile da non riuscire a comprenderlo:
“La cosa del contratto a gettone sapete tutti com’è andata, io quando ho parlato con lui gli ho detto: – Io non vi avrei chiesto un euro, voi dite che io sto male, sono malato, datemi 100mila euro a presenza, voi considerate che io non riesco a fare 10 partite? Se faccio 10 partite guadagno 1 milione tanto è quello che mi volevate offrire su per giù, se ne faccio 30 guadagno 3 milioni, volete fare così? Avete anche la possibilità di non farmi mai giocare e gioco gratis, che problema c’è? – Ho fatto una battuta così, e Fienga mi risponde – Guarda che è quello che volevo offrirti io, 100mila euro a partita più un bonus fisso -. Io gli ho risposto – Pensa io il bonus fisso manco lo volevo – e finisce così. Questo nato e morto nel momento in cui mi stavano dicendo che non mi tenevano, torno a casa mi chiama Fienga e mi dice di aver parlato con il Presidente e che se è così posso anche rimanere… Ma come, è un anno che non ci parliamo, mi stai dicendo che mi cacci via e dopo 40 minuti mi chiami e mi dici che va bene se vuoi fare il contratto fattelo…vabbe’…”.
I manager, i presidenti e spesso nemmeno i dirigenti conoscono le dinamiche che distinguono un “uomo spogliatoio” un “leader”, da un giocatore comune. Quello che ha grinta, che fa la differenza, che si carica sulle spalle gioie e dolori, quello che contro il Barcellona si prende la responsabilità di battere il rigore per regalare un sogno, quello disposto sempre a metterci la faccia e all’occorenza… una PEZZA, come si dice a Roma, quello che sa che non si è solo un numero, ma un gruppo e che viene a ricordartelo ogni singolo momento.
Le storie d’amore spesso mettono in crisi le società, i rapporti di squadra, i confronti tra team di lavoro. La mancanza di lucidità può indurti all’errore e spesso si tende a separare gli amanti per mantenere saldi gli equilibri, e portare a termine determinate mansioni o missioni. Già, gli equilibri: sarebbe carino poter chiedere a persone come Strootman o lo stesso Nainggolan se siano stati i sentimenti troppo forti a diventare un problema.
Ieri la contestazione dei tifosi sotto la nuova sede dell’Azienda Roma, stasera l’ultima trasferta e domenica prossima l’ultima all’Olimpico, tempi troppo stretti per metabolizzare. Dopo questa rottura, voci sempre più insistenti parlano di addii dolorosi anche per Kolarov, Dzeko e Manolas, con un Totti che pare voglia respirare un po’ e prendersi del tempo lontano dalla società.
E ancora una volta, forse l’ultima: ”Figli di Roma, Capitani e bandiere, questo il mio vanto che non portai mai avere”.
DDR sempre nel cuore.
Laura Tarani