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Da Gabbo a Luca Toni: quando il calcio assume i contorni della violenza

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Quanto accaduto al campione del mondo 2006 Luca Toni e al presidente dell’Hellas Verona qualche giorno fa ad Avellino non è passato inosservato alla cronaca e, sebbene la cosa abbia avuto una risonanza maggiore rispetto ad altri, purtroppo non si tratta di un caso isolato tantomeno di uno sporadico evento che possa far specie.

Quanto accade spesso sugli spalti o fuori è una piaga che affligge il mondo dello sport che, sebbene le innumerevoli – in certi aspetti deplorevoli – misure di sicurezza attuate, difficilmente si riesce a risanare. Per cogliere il paradosso che contraddistingue la cosa sarebbe necessaria una dietrologia evidentemente poco nota o finta tale ai più. Basti pensare ai giochi olimpici delle origini svoltosi in un periodo di totale armistizio in cui belligeranza e odio venivano sospesi proprio per l’occasione intrisa di giovialità e fratellanza. Oggi, al contrario, gli eventi sportivi di ogni tipo e in particolare di calcio sono spesso causa di rabbia esasperata che sfocia in odio e irrefrenabile violenza.

Per appurare la veridicità della cosa basterebbe rispolverare memorie neppure così lontane; dagli scontri di Catania, passando per l’omicidio di Gabbo, ai fatti di Roma della finale di TimCup del 2014 (per citarne alcuni).

Luca Toni dopo la triste vicenda di Avellino denuncia due fatti gravi:  l’aggressione in primis e l’indifferenza delle forze dell’ordine in secundis. O meglio…cambiamo gli addendi; e se in matematica cambiando la posizione degli addendi il risultato non cambia in questo caso cambiando gli addendi il risultato cambia e come. Sicché cambiando gli addendi viene fuori in primis l’indifferenza e la negligenza delle forze dell’ordine, in secundis un atto di violenza frutto, oltre che di mancanza di decenza e civilità, di anarchia, ci verrebbe da pensare. Ma questa è una parentesi che, per forza di cose, mi limito a chiudere per non sfociare in ulteriori digressioni che andrebbero pure fin troppo oltre ma, le digressioni non sono mai casuali.
A tal proposito sorge lecito fare un appunto e per farlo è necessario riavvolgere il nastro; se è vero che dagli spalti sono spesso venuti fuori spettacoli tutt’altro che ludici, è altrettanto vero che la generalizzazione crea talvolta più colpevoli di quanti non ce ne siano già e se l’omicidio di un ispettore fuori da uno stadio mentre si disputa un derby di serie A è un risultato di civiltà triste e denigrante, lo è altrettanto l’uccisione di un ragazzo colpito da un proiettile partito da una pistola in mano di chi – per dovere – gli omicidi avrebbe dovuto scongiurarli.
L’omicidio dell’ispettore Raciti durante gli scontri del 2 febbraio 2007, così come l’omicidio di Ciro Esposito durante la finale di Coppa Italia del 3 maggio 2014 hanno ineluttabilmente svelato un lato della medaglia del tifo organizzato che più che spaventare disgusta allo stesso modo in cui disgusta e spaventa un simile lato della medaglia svelato l’11 novembre 2008 con la morte di Gabriele Sandri, episodio in cui vittima e carnefice sono invertiti e il carnefice stavolta non è un ultras ma un poliziotto.
Cosa si evince? All’origine della violenza e dell’odio, che condanniamo pure e soprattutto in questa sede, c’è quasi sempre un sentimento di astio partorito dai pregiudizi che gli stereotipi alimentano. Stereotipi come quello che accosta la parola violenza alla parola ultras, luogo comune secondo il quale le curve degli stadi nient’altro sono che covi di vere e proprie associazioni a delinquere. Appunto stereotipi, ribadisco.
Se è vero che le curve e gli spalti da stadio in generale sono spesso teatro di tragedie e barbarie, espressione di una civiltà non degna di tale appellativo, e altrettanto vero che sugli spalti pullulano razzismo e odio, violenza e delinquenza, è anche vero l’esatto contrario e questo lo dico per esperienza. Avete mai chiesto ad un tifoso cosa si provi entrando in uno stadio e nella fattispecie in curva? Mettiamo che volessi mettere da parte professionalità e deontologia e scrivessi come una qualunque tifosa farebbe, mettiamo il caso anche che ogni domenica è sacrosanta, e ogni domenica sciarpetta e zainetto sono i migliori amici di ogni tifoso, uomo o donna che sia, vi racconterei una versione dei fatti che stona con le storie che siamo soliti ascoltare.
La curva è sentirsi a casa, quel luogo in cui come per magia ci si sente accomunati ad altre migliaia di persone di cui non si conosce nome nè storia che per quanto ne sappiamo potrebbero essere serial killer o crocerossini, avvocati o insegnanti, stranieri o italiani, di destra o di sinistra, musulmani o cattolici, tutte caratteristiche che non si ha il tempo tantomeno l’interesse di considerare, sentendosi piuttosto legittimati ad abbracciarle quelle persone sconosciute; ad abbracciarle e con le quali gioire o soffrire. La curva è quel rettangolo di allegria ed entusiasmo variopinto, quel luogo in cui per un paio d’ore a settimana, oltrepassati i tornelli, ci si sente estraniati dal mondo esterno lasciando la realtà sospesa a mezz’aria e rinchiusa in una bolla di totale noncuranza e pressoché disinteresse. La curva è quell’energia che veste il calcio di magia unica senza la quale questo gioco non sarebbe tale; è calore e gioia e allo stesso tempo sofferenza e nervoso. La curva è sistole e diastole, è il cuore pulsante di ogni stadio e di ogni match, amichevole o finale di Champions. Come tale, talvolta un’anomalia è possibile faccia capolino mandando in tilt l’intero sistema cardio-vascolare provocando una maledettissima dissecazione aortica impossibile da diagnosticare e quasi – salvo casi eccezionali- impossibile da prevenire e curare.
Ciononostante, pur arrendendosi inermi di fronte all’impossibilità di salvare quella dissecazione, i cardiochirurgi continuano ad operare certi che quella dissecazione sia servita da monito per provare ad essere più veloci nel caso successivo e migliaia, forse milioni, di altri cuori verranno salvati e torneranno a battere. Insomma, è vero che spesso l’indecenza pullula all’interno degli stadi ma condannare a priori il tifo organizzato per mero pregiudizio o sovrageneralizzazione è come smettere di operare un cuore per paura di imbattersi in una dissecazione aortica impossibile da risanare e sebbene sia capitato che codesti (pre)giudizi siano stati giudizi a posteriori cadere nella sovrageneralizzazione è fatto assai sbagliato.
Quanto accaduto a Luca Toni ad esempio, come sottolineato dallo stesso, è un episodio di violenza che poco centra con la tifoseria; gli aggressori infatti a quanto pare non erano neppure tali ma balordi larvati che occultano la loro mala fede dietro un evento sportivo sfruttandolo a proprio piacimento infangandone il buon nome.
Egle Patané

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