Da Mancini all’opinione comune, passando per i media, l’appello è uno solo: lasciate ai giovani italiani il tempo di maturare, di crescere.
I giovani di questo nostro calcio – pur figli di una generazione senza top players – si riuniscono e chiedono a gran voce il tempo che serve loro per fare, per costruire, per tornare, magari, a vincere. Che non sarà una cosa facile, ma si ha il dovere di provare.
E’ Federico Bernardeschi questa volta a prendere parola per avanzare tale appello: un appello che lo coinvolge in primis e non solo perchè, in quanto classe 1994, fa parte di questa categoria in difficoltà. C’è qualcosa di più nelle parole di Federico.
C’è tutta la consapevolezza di chi conosce perfettamente cosa voglia dire non trovare lo spazio giusto in una squadra che ha la media età più alta di tutta la Serie A. Una squadra in cui a ventiquattro anni sei considerato ancora uno che ‘deve crescere’, inadatto a sopportare la pressione con il costante pericolo di bruciare le tappe. Una squadra in cui, se sei tra i venti e i venticinque, è quanto mai complicato che il tuo allenatore ti schieri titolare in un big match in campionato: figurarsi in una gara di Champions. Una squadra che – perdonate la crudezza – preferisce affidarsi all’ ‘esperienza’ di Bonucci piuttosto che puntare su Caldara perché Bonucci serve nell’immediato, per vincere la Champions e poco importa se in precedenza l’esperienza dello stesso Bonucci, in due finali, non abbia mai fatto la differenza.
Federico vive la realtà della Juventus e conosce l’origine di questo cancro che divora la Nazionale Italiana. Sa cosa vuol dire trovare un club, un mister, un contesto in cui se sbagli alla prima paghi un conto salato, soprattutto se sei in un club il cui motto è “vincere è l’unica cosa che conta” e quel motto diventa un alibi per sacrificare il tempo necessario ai ragazzi per sbagliare. E con questo non dico che la Juventus sia l’unica a ragionare così: semplicemente bisogna guardare oltre, a quelle Top europee che hanno saputo credere e coltivare i loro talenti, che schierano Asensio in prima squadra a 19 anni perchè a quell’età hai la giusta dose di incoscienza per fronteggiare il panorama europeo e per imparare a portarne il peso. Così che a ventiquattro anni sei già un uomo, anche in campo, si spera.
Alla fine è l’immagine speculare del nostro caro Paese, dove per trovare lavoro è richiesta la tanto ambita esperienza: ma come fare a costruirla, se non viene mai offerta una possibilità, proprio non si sa.
L’appello di Bernardeschi è quanto mai comprensibile, e deve arrivare soprattutto alle orecchie di chi decide e gestisce schieramenti in campo. Gli allenatori spesso non si rendono conto di giocare col futuro dei ragazzi che dovrebbero invece tutelare, col rischio di metterne in discussione la possibile carriera.
L’esperienza non si acquisisce guardando da una panchina, ma buttandosi nella mischia. I giovani potranno crescere solo correndo più rischi e avendo il coraggio di dire basta a quelli che sicuramente hanno dato tanto, ma che a un certo punto devono passare la palla.
La fortuna aiuta gli audaci. E la nostra realtà calcistica, oggi, di fortuna ne ha disperatamente bisogno…
Daniela Russo