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Alvaro Morata, quel bell’anatroccolo non ancora diventato cigno 

Morata, El Ariete, il promettente madrileno che fece innamorare di sé Torino, compie oggi 26 anni nel grigiume di Londra.

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Alvaro Morata nasceva esattamente ventisei anni fa, il 23 ottobre 1992. A solo un quarto di secolo e un anno è papà di due bambini, nati di recente e detiene un palmares che vale già la pena di essere raccontato: 2 Champions League, 1 Premier League, 2 volte Campione d’Italia e altrettante volte Campione di Spagna, 2 Coppe Spagnole e 2 Coppe Italia e 1 volta Campione per Club e 1 Supercoppa, senza considerare i titoli vinti con l’Under 19 e l’Under 21.

Fama, popolarità e tanti soldi così come qualunque campione degno della sua fama e così come questo mondo ormai spontaneamente ci propina.
Eppure Alvarito in un’intervista rilasciata di recente a “El Mundo” si confessa come un qualunque ragazzo ventiseienne farebbe con una birra davanti ad un bancone con un vecchio amico. 

Ed è proprio quello che molto probabilmente manca a quel ragazzino cresciuto sempre troppo in fretta e con il senso di dovere
Sarà per questo che quel senso di appartenenza alla Spagna lo ha in qualche modo braccato, spegnendo e offuscando la migliore delle sue qualità: la duttilità. 

La velocità e la tecnica dei movimenti che rendevano possibili i guizzi in profondità presagivano di lui un Attila in grado di arare ogni lingua di campo dinnanzi a sé: la facilità di saltare l’uomo e la precisione di tiro, la versatilità, la  grande capacità di precisione e finalizzazione aerea, caratteristiche che gli avevano guadagnato l’appellativo “El Ariete”, le stesse che hanno fruttato la “recompera” dei Blancos, ma che forse non sono mai davvero sbocciate.

Il suo minutaggio con la maglia bianconera non è stato tra i più lunghi della storia della Vecchia Signora; complici l’arrivo di Dybala, Mario Madzukic e Simone Zaza, il suo decollo viene interrotto sul più bello. Allegri si avvale parecchio dello spagnolo in Champions League nel suo primo anno alla Juve, scommettendo bene. Il rigore procuratosi contro i francesi del Monaco è valso il passaggio del turno.
Disputate 12 partite su 13, ha servito 2 assist e segnato 5 reti, di cui una in finale: il pareggio che aveva riaperto le speranze bianconere sotto il cielo di Berlino. 

L’affollamento in attacco, il turnover e le scelte tecniche hanno sottratto sempre più spazio allo spagnolo che da prima punta iniziava ad essere utilizzato da esterno prima di essere sorpassato dai nuovi Mandzukic e Dybala nella scala delle gerarchie.

Il peso della recompra pendeva su di lui come lama in mano al boia, coltivare un talento che avrebbero potuto sottrarre non valeva il rischio e Allegri fu il primo ad azionare la ghigliottina. Il rapporto si incrinava e Alvarito rispondeva sul campo decidendo le partite, da riserva con carattere, freddezza e voglia di fare bene. 

Quaratasette le presenze in tutta la stagione 2015/16, 2.377 i minuti giocati, 12 gol e altrettanti assist, decisivo contro il Bayern Monaco sia all’andata che al ritorno. Poche le reti ma quasi tutte decisive e pesanti; a segno contro Inter, Fiorentina e al derby contro i granata, ma non è bastato perché il Real esercita la recompra e Alvaro torna a Madrid.

Nelle file dei Blancos sperare di veder sbocciare la propria carriera, lì dove tutto è germogliato, era il sogno dell’attaccante. Anche a Madrid, però, le gerarchie non sono meno competitive, al contrario, il livello di competizione è alto e devastante, specie perché al Real la star è una e una soltanto, togliendogli la possibilità di esprimere al meglio le sue qualità innate. Preponderante la presenza di Benzema e Ronaldo, quanto quella di Bale e in campo come prima punta Morata si scontra con le esigenze di CR7:  anche a Madrid la panchina è tanta. 

Colleziona 20 gol e 6 assist in 43 presenze totali, ma sono soltanto 1.903 i minuti giocati al cospetto dei 3.239 di Karim Benzema in appena cinque presenze in più, chiara quindi la subordinazione che lo spagnolo deve al francese.

 

A fine stagione l’offerta del Chelsea e la voglia di titolarità che con Conte sembrava assicurata; l’esordio in quel di Londra è tra i migliori, 6 gol e 2 assist in 6 partite. Un assist contro il Bournemouth, la rete vincente contro il Manchester di Mou, un altro gol e un assist nel poker contro il West Brom e ancora un’altra rete al Newcastle sanciscono un buon approccio dello spagnolo alla Premier e le due convocazioni mancate contro Huddersfield ed Everton non fanno pensare a nulla di sospetto, specie perché al rientro contro il Brighton apre le danze della doppietta blues. Da lì inizia un calvario preoccupante.

Mai incisivo e determinante in UCL, solo un gol contro l’Atletico nella fase a gironi, e poco spazio contro il Barca prima che blaugrana facessero fuori i blues dalla competizione. Sfumati tutti gli obiettivi stagionali, compresa la qualificazione in Champions, Conte e i suoi si consolano con l’ottava FA Cup vinta contro il Manchester di Mou che però non basta per salvare l’italiano. Diventata funesta la permanenza di Conte sulla panchina, quella di Morata al Chelsea sembra poter prendere piega diversa con l’approdo del nuovo manager Maurizio Sarri.

 

Svolta però che sembra essere già un’utopia; malgrado la stima e la fiducia riposta in lui anche Sarri pare costretto al passo indietro e dopo lo score segnato contro il Southampton, il secondo stagionale, lo sostituisce all’ottantesimo con Giroud anziché farlo affiancare dal francese; chiaro segnale di quanto la fiducia riposta nel numero 29 stia pian piano sfumando prendendo sempre più una piega che lascia pensare ad un addio imminente.

Non è mistero che il board blues abbia già pensato di mettere Alvarito sul mercato, sperando in un offerta già da questo gennaio. Offerte che di certo non mancano: ultimo e neanche silente, l’interesse bianconero a riportare il classe ’92 allo Stadium ma i titolarissimi in una rosa già ben farcita difficilmente lasciano presagire ad un possibile posto da titolare e forse Alvaro ha solo bisogno di una fiducia che vale qualcosa in più di una panchina dai trofei d’oro.

Forse, per la felicità di cui parlava, basterebbe una titolarità lì dove a brillare sono gli occhi del ragazzino pieno di amore e gioia per il calcio tipici del suo  visino da bravo ragazzo al cospetto dei lustrini delle bacheche, tipici di chi all’essere uomo preferisce essere macchina da guerra.

 

Egle Patanè

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